L’hotel Belvédère entra in scena, con il ghiacciaio del Rodano sullo sfondo, alle spalle della Rolls-Royce Phantom III Sedanca de Ville gialla e nera di Auric Goldfinger guidata dal maggiordomo-killer-caddy Oddjob, al trentaquattresimo minuto e ventitreesimo secondo di Agente 007-Missione Goldfinger (1964). Appena scendo dalla posta me lo ritrovo davanti al naso, in posizione impossibile lungo un tornante della Furkastrasse. Facciata rasapietra, tetto di zinco, abbaini sprangati, persiane verdi, l’insegna rossa ormai quasi scolorita del tutto che mostra il legno delle quattordici lettere separate. Nato nel 1892 riappare qualche minuto dopo, assieme alla Ford Mustang convertible avorio e sedili in pelle cremisi con al volante una Bond-girl interpretata da Tania Mallet che ha appena superato la Aston Martin DB5 argento betulla di Sean Connery.
Iconico e chiuso da un lustro, è di proprietà della famiglia Carlen che da quattro generazioni gestisce la grotta scavata ogni anno, dal 1870, nel ghiacciaio del Rodano ormai sparito dalla vista dell’hotel. Belvédère è anche toponimo – parte del comune di Obergoms, in Vallese – come si legge in bianco sul cartello blu sulla strada che attraverso di corsa. Tante moto e macchine sfrecciano su a tutta birra, scimmiottando la famosa scena di James Bond, verso il passo della Furka. Qui in faccia all’angolo curvilineo dell’hotel Belvédère, c’è lo chalet-bazar. Dove si deve entrare per forza, se si vuole visitare la grotta nel ghiacciaio del Rodano che latita ancora nel paesaggio. Verso metà maggio un elicottero atterra sul tetto piatto dell’annesso al bazar: sette uomini isolati dal mondo – la strada della Furka è sepolta da metri di neve – per circa un mese vivranno lì con una sola missione in testa. Scavare nel ghiacciaio, in tempo per l’inizio dell’estate, la grotta di ghiaccio reclamizzata prima della curva e segnata perfino sulle cartine geografiche come Eisgrotte. Wienerli mit Kartoffelsalat si legge, in gesso, su una lavagnetta del chioschetto. Cagnolini Sanbernardo di peluche, mucche in tutte le salse, cristalli, pietre da tutto il mondo, e un sacco di altri souvenir s’incontrano prima della cassa in fondo dove alla vegliarda Sophie Harnisch, si paga l’entrata di nove franchi. Novantenne pezzo da museo che cercando a fatica il franchetto di resto, sostiene autoironicamente: «oggi i miei occhiali non funzionano». E mi rivela che il Belvédère è in vendita. «Due milioni» esclama divertita.
Passato il tornello, m’incammino verso il ghiacciaio del quale si sente l’acqua sciolta scorrere giù impetuosa per la valle. Laggiù c’è un laghetto grigio-azzurrastro con piccoli iceberg piatti che galleggiano. Alla fine del laghetto ecco cosa rimane del ghiacciaio del Rodano. Catturato ancora con un certo magnetismo nelle riprese del terzo film della serie di James Bond e immortalato da Caspar Wolf a colpi di pennello in tutta la sua imponenza sublime nel 1778, si sa, è ora l’ombra di se stesso. Tutto intorno all’entrata della grotta è coperto da teli bianchi come i monumenti impacchettati da Christo. Sembra una soluzione da disperati, eppure secondo il glaciologo svizzero David Volken, riduce del settanta per cento lo scioglimento estivo. Ad ogni modo, se si riesce ancora a salvare la storica attrazione turistica, vana è la lotta contro la lenta agonia di quello che d’un tratto mi sembra un gigantesco pesce San Pietro spiaggiato e morente. Ogni anno, per via dell’arcinoto cambiamento climatico, il ghiacciaio che lasciò a bocca aperta Goethe, si ritira di diversi metri. Gli ultimi passi del tragitto sprofondano nella neve. E così, dopo le nove e mezza di un mattino di fine giugno che sarà ricordato per la canicola record, entro nella grotta di ghiaccio (2212 m) a una decina di minuti di cammino da una curva sulla strada della Furka. Assi per terra, ghiaccio trasparente, sgocciolìo inquietante, crepacci che mostrano il telo protettore in polyester.
Il mio scetticismo iniziale si squaglia all’istante quando incomincia il blu glaciale unico. François-Alphonse Forel, scienziato esperto del Lemano e inventore della limnologia, nel 1907 annota: «di nessun altro ghiacciaio conosco un blu così splendido, profondo, e forte». È una benedizione questo blu luminescente, di preciso però ora forse la sua tonalità si dirige più verso l’azzurro Grotta Azzurra di Capri, quasi turchese artico nel punto di fuga. Le tonalità esatte di blu però dipendono anche un po’ dall’orario di visita e dallo spessore del ghiaccio. Il tunnel è scolpito con sapienza, frastagliato, per accentuare la fuga prospettica. Fino a non molto tempo fa, alla fine del percorso refrigerante, due orsi polari sorprendevano i visitatori. A quanto pare, la foto ricordo iperbolica con i due stoici esseri umani travestiti da orsi polari, era di rito. Sembra però che questo misterioso azzurro nel cuore del ghiacciaio del Rodano, visibile dalle otto di mattina alle sei di sera fino a metà ottobre, basti a sorprendere: «Urca!» sento provenire in fondo al tunnel.