Meteorologi e climatologi sono in allarme anche nel paese – il nostro – in cui il patrimonio idrico era dato fino a qualche anno fa inesauribile, una sorgente da cui l’acqua sgorgava senza interruzione, giorno e notte. Non che questa fonte vitale per ogni organismo non avesse alle spalle conflitti per la sua gestione e distribuzione, controversie che nelle comunità agro-pastorali del passato potevano sfociare in litigi violenti. Complessivamente, tuttavia, l’acqua – come l’aria – non mancava mai, o quasi. I periodi di prolungata siccità erano rari, il rischio che lo spazio alpino, così ricco di polle, potesse prosciugarsi era considerato un’eventualità remota, una calamità neppure pensabile. Minacce e danni scaturivano semmai dagli eccessi, da frane, alluvioni e inondazioni: erano disgrazie che le comunità mettevano in conto e che cercavano di prevenire armando gli argini e mantenendo sgombri da detriti gli alvei.
Lo sappiamo dai banchi di scuola: la Svizzera, povera di materie prime, in primis del carbone, ha dovuto aguzzare l’ingegno per muovere le pulegge delle sue manifatture, per far correre i suoi treni e per illuminare le sue abitazioni. Di qui l’idea di sfruttare i suoi tesori naturali, il suo «carbone bianco», costruendo ovunque condotte forzate e bacini di accumulazione, per poi trasformare la caduta in energia elettrica. Sono così sorte in alta montagna imponenti dighe, opere a volte contestate perché considerate indifferenti alle legittime rivendicazioni dei comuni di valle (il dibattito sugli interessi delle «Partnerwerke» ha dominato a lungo la politica ticinese), oppure perché sproporzionate e poco rispettose della biodiversità, archi in cemento armato conficcati nei pascoli alti. Proteste allora non infondate, ma che oggi volentieri accantoniamo di fronte all’emergenza climatica, alla contrazione dei ghiacciai e alla «grande sete» che sta mettendo in ginocchio l’agricoltura e l’allevamento nelle aree cisalpine.
Indispensabile alla vita, l’acqua ha svolto una funzione non secondaria anche nella costruzione dell’identità confederale, e questo fin dal Rinascimento. Già da quell’epoca viaggiatori, diplomatici e «descrittori» attribuirono ai territori che si stavano alleando nel cuore delle Alpi il ruolo di acquedotto d’Europa, un «castello d’acqua» i cui canali – rappresentati dalla croce fluviale di Rodano, Reuss, Reno e Ticino – andavano a irrigare e dissetare le pianure dei regni circostanti. Questa rappresentazione dell’antica Confederazione come fulcro idrografico del vecchio continente, come «madre dei fiumi» («Helvetia mater fluviorum»), divenne nella prima metà del Novecento un «topos» politico-culturale, emblema ed essenza della specificità elvetica e della sua volontà di difesa di fronte all’ascesa dei regimi totalitari.
Un inno al fiume che lo scrittore e critico letterario grigionese Reto Roedel riprese, esaltandolo, in un suo giro di conferenze nell’Italia fascista nel dicembre del 1938: «La montagna, la valle, il lago non sono l’intero paesaggio svizzero. Le genti che illustrano quella tripartizione non costituiscono tutta la gente elvetica. Al paesaggio così rappresentato occorre ancora un elemento, un elemento vitale, dinamico, una – questa sì – delle più preziose riserve naturali di energia nostra. Il suo nome è sulle labbra di tutti… il fiume. Il fiume vivace e solenne, il fiume migratore ma sempre alimentantesi alla originaria purezza della sua fonte, il fiume che corre via ma per farsi sempre maggiore e per accrescere forza al suo primo corso…». Nel gorgo di emergenze in cui siamo precipitati negli ultimi anni (esodi e deportazioni, cambiamento climatico, pandemia, guerra) non pensavamo di dover aggiungere anche la graduale evaporazione delle risorse idriche, l’oro blu custodito nella cassaforte delle Alpi. Eppure, a detta degli esperti, è questo il mondo che ci attende, una Grande disidratazione che minaccia di disseccare anche paesi tradizionalmente umidi come la Svizzera.
La Grande disidratazione
/ 04.07.2022
di Orazio Martinetti
di Orazio Martinetti