La formula magica ticinese

/ 14.02.2022
di Orazio Martinetti

Le discussioni intorno alle leggi elettorali – le regole che disciplinano la contesa politica – solitamente non attizzano le passioni. Parlare di percentuali, quozienti, resti è affare di specialisti: tecnicismi incomprensibili ai più. Il fatto è che nessuna democrazia può permettersi di farne a meno, pena l’arbitrio e il caos. Naturalmente non è impresa facile stabilire regole che soddisfino tutte le forze in campo. Il nostro Ticino, ad esempio, si è lungamente scannato sulla questione maggioritario-proporzionale, se sia migliore, ovvero più efficace, il primo sistema, o se sia più equo il secondo, sebbene più lento e macchinoso.

Breve premessa per dar conto di un anniversario importante, capitale per la storia politica di questo Cantone: il centenario dell’ingresso del primo socialista in Consiglio di Stato. Avvenne il 23 aprile del 1922 nella persona di Guglielmo Canevascini, figlio di contadini, non un avvocato ma un militante autodidatta pratico, che si era fatto le ossa come sindacalista nelle vertenze del primo Novecento. Canevascini rimase in Governo fino al 1959, una longevità politica premiata con il soprannome di «padreterno». L’ingresso avvenne nel corso di una fase concitata, iniziata nel primo dopoguerra e poi proseguita contro venti e maree fino al triennio 1921-1923. In quel periodo aveva visto la luce un nuovo partito, quello agrario (1920), con l’effetto di indebolire il duopolio liberali-conservatori (ma con i primi a reggere saldamente le redini della compagine governativa). Tuttavia il Paese «languiva», come non si stancava di ripetere sulle colonne della «Gazzetta Ticinese» il direttore Antonio Galli. Politicamente regnava la massima confusione. La Costituente voluta per riformare la carta fondamentale non aveva cavato un ragno dal buco: un fallimento accompagnato dalla bocciatura in Gran consiglio del preventivo allestito dal radicale Evaristo Garbani-Nerini, che rispose allo smacco con le dimissioni. Insomma, un guazzabuglio da cui non si scorgeva una via d’uscita decorosa.

Per smorzare le tensioni si riaffacciò l’idea di portare il numero dei Consiglieri di Stato da cinque a sette, facendo spazio anche agli agrari (Raimondo Rossi) e appunto ai socialisti. Quest’ultimi avevano iniziato ad accarezzare l’idea della partecipazione al Governo già da un paio d’anni, ritenendo più fruttuosa la presenza nell’Esecutivo che un’opposizione frustrante dai banchi del Legislativo, dove gli eletti socialisti non raggiungevano le dieci unità. La strategia non piacque a tutti, alcuni compagni contestarono la scelta della direzione dalle pagine di «Libera stampa», sostenendo la tesi che non si dovesse collaborare con i borghesi.

A sostegno di Canevascini intervenne il capo dei conservatori, il conterraneo Giuseppe Cattori, che intravide in quel frangente convulso la via per ridimensionare una volta per tutte l’egemonia liberale-radicale. Nel corso dell’autunno del 1922 si giunse all’approvazione di un articolo costituzionale che contemplava una clausola ingegnosa. Diceva: «Il gruppo che non ha conseguito la maggioranza assoluta dei votanti non può ottenere più di due eletti; il gruppo che ha conseguito la maggioranza assoluta dei votanti non può avere meno di tre eletti». In altre parole, chi non raggiungeva la maggioranza assoluta nel Paese non poteva pretendere di ergersi a «dominus» del Consiglio di Stato. Era la cosiddetta «formula Cattori», per gli avversari «pateracchio» o «trappola», che dava luogo al «Governo di Paese». Nel 1923 il nuovo equipaggio, ridotto a cinque elementi, prese il mare con due liberali (Giovanni Rossi e Cesare Mazza), un conservatore (Giuseppe Cattori), un agrario (Raimondo Rossi) e un socialista (Guglielmo Canevascini). Per la prima volta i liberali dovevano fare i conti con l’eventualità che le minoranze potessero coalizzarsi contro di loro. Infine, nel 1927, con l’uscita dell’agrario, la formula si assestò nella composizione sopravvissuta fino al «terremoto» del 1987, ossia due liberali, due conservatori, un socialista.

Non sempre i cinque sono andati d’amore e d’accordo, e voltafaccia e ribaltamenti hanno lasciato cicatrici profonde nelle relazioni interpartitiche. Tuttavia il modello consociativo ha retto fino ai giorni nostri. All’origine c’è il sistema proporzionale, che esclude dal collegio governativo solo i partitini. Secondo alcuni è la soluzione migliore per un cantone litigioso come il nostro; secondo altri è invece soltanto un ripiego, una macchina costretta, per funzionare, a privilegiare i compromessi al ribasso.