La forêt jardinée di Couvet

/ 08.11.2021
di Oliver Scharpf

Sul giornale, un mattino di qualche anno fa, c’era un articolo a proposito di una comitiva di professori messicani in visita alla forêt jardinée di Couvet. La fôret jardinée inspire le Mexique titolava quel trafiletto su «L’Express» – sfogliato facendo colazione al Café de la Poste di Fleurier per via di un’escursione alle sorgenti dell’Areuse sulle tracce della viverna – rimasto impresso. Al punto di volerci tornare, da quelle parti, a darci un’occhiata. E così, una giornata in cui i boschi mostrano tutta la loro magia autunnale, a cinque chilometri da dove questa notizia, quattro anni fa, si è sedimentata nella mia mente, m’incammino alla scoperta di questa foresta venerata dai professori di scienze forestali di tutto il mondo.

Creata nel 1881 da Henry Biolley (1858-1939), eminente selvicoltore nato a Torino e morto proprio a Couvet, la fôret jardinée sarebbe traducibile come foresta disetanea. Eppure è uno di quei tecnicismi da latte alle ginocchia perciò la lascerei volentieri, come la crème caramel, in versione originale. Del resto giardinare in italiano è un verbo legato alla falconeria e se giardiniera è riferito a verdure miste tagliate fini, con foresta-giardino si entrerebbe nel mondo del foraging. Ad ogni modo, disetanea, vale a dire di età differente, rivela una caratteristica della meta di oggi, dove entro un bel pomeriggio ai primi di novembre. Specialità della Val de Travers al pari dell’assenzio e del prosciutto all’asfalto, al quale ho dedicato un reportage nell’ottobre 2014, la prima fôret jardinée (816 m) sperimentale è quella di Couvet. Colpisce subito, dappertutto, il manto di muschio verde chiaro, filamentoso, fiabesco quasi, sul quale cadono le foglie gialle degli aceri e rossicce dei faggi. Il dominio però è degli abeti bianchi. Alcuni si elevano maestosi mentre altri, più giovani, si notano qua e là.

Tagliare qua e là alcuni alberi di una foresta per mantenerla è un po’ il significato, stringato, del giardinaggio in foresta. Tecnica atavica, perfezionata, attraverso «il metodo di controllo», da Biolley, omaggiato di una targhetta in bronzo posata qui, nel giugno 1954, da qualche parte. Attrazione, oltre al Sapin Président – l’abete bianco più alto della Svizzera – del posto. Distratto dalle possibilità micologiche, lascio il sentiero didattico, indicato – per una volta tanto, senza inquinare con cartelli eccetera – con delle stelline gialle, incavate nel legno, del genere bacchetta magica delle fate. Per passeggiare sul muschio fatato dove spuntano dei Lactarius salmonicolor che ravvivano, a inginocchiarsi per vederli come si deve, il già variato sottobosco. Aggiungendo così questa tonalità ai tocchi di giallo acceso e rossiccio ruggine che chiazzano il verde scuro, profondo, prevalente, degli Abies alba e pecci (Picea abies). Seppur esposta a nord, ombrosa di natura, la foresta è luminosa. Risultato di forza e finezza. Sulla corteccia di un abete bianco si nota il segno per designare l’albero da abbattere: uno spazio scorticato da cui lacrima resina. Altri segni del linguaggio forestale sono punti rossi sprayati, triangoli, una numerazione che potrebbe distrarre dai numeri, discreti, quasi nascosti, delle postazioni del percorso da seguire. Anche se le stelline si perdono di vista, strada facendo. Perdipiù altri sentieri segnalati con i classici cartelli giallo pannocchia, oltre a uno indicato dai cartelli helsana trail, creano un po’ di confusione.

Mi perdo e mi ritrovo più volte. Per miracolo, seguendo, così, a naso o per disperazione perché ho girato per ore in lungo e in largo quasi per tutto il bosco, l’ultimo sentiero possibile, trovo il Sapin Président. Non lontano da una panchina, ecco erigersi, imponente, l’abete bianco germinato nel 1744 e alto cinquantotto metri e qualcosa. Fino a poco tempo fa era l’albero più alto della Svizzera, superato, pare, da un abete di Douglas argoviese. Rimane comunque il più alto abete bianco svizzero e uno dei più alti d’Europa. Lo abbraccio. Poco distante, scopro – c’ero passato davanti prima senza farci caso – su una roccia ricoperta di muschio, tra le felci, la targhetta di bronzo in omaggio a Henry Biolley. Autore di testi teorici sulla selvicoltura che hanno fatto scuola – «ottenere il bello cercando l’utile» era il suo motto – e di una sorprendente poesia sulla nobiltà degli abeti.