L’acqua che scende a cascata è la cosa che mi ha sempre attratto di più della fontana in piazza Molino Nuovo a Lugano. «È del Tita Carloni» mi fa un mio amico che abita a cinque minuti da lì, in via Lambertenghi. Via email Nicola Navone, vicedirettore dell’Archivio del Moderno di Mendrisio, conferma l’attribuzione a Tita Carloni (1931-2012). E Luigi Camenisch (1919-2011) aggiunge, con il quale condivideva lo studio in quegli anni. La data, 1957, è invece da verificare consigliandomi di consultare il Fondo Tita Carloni conservato alla Fondazione Archivi Architetti Ticinesi. E così, un pomeriggio alla fine dell’estate scorsa, sui tavoli della sala consultazione dell’Archivio di Stato, la responsabile Angela Riverso Ortelli mi ha lasciato il faldone a proposito della fontana di Molino Nuovo. Spulciando trovo il 1959 come anno in cui per la prima volta l’acqua scende a cascata in piazza Molino Nuovo, dove mi siedo su una delle tre panchine in prima fila un pomeriggio a fine agosto.
Tenuta d’occhio tutta la primavera, l’acqua si è messa in moto solo dopo il solstizio d’estate. Alle mie spalle, verso la videoteca chiusa, ce ne sono altre due di panchine sempre di quelle classiche rosse, di legno, ospitali. Due poi, anche in prima fila vista fontana, si trovano dall’altra parte della fontana, ma mi sono sempre seduto su una di queste tre. E chissà quante volte mi sono seduto qui, per fare merenda, all’epoca in cui frequentavo un’amica che abitava in via Zurigo. Trafficata strada che interseca la non meno percorsa via Trevano, qui accanto. Sull’altro lato che delimita la piazza scorrono, in senso inverso, le macchine in via Bagutti. Non mi ricordavo però che lo scroscio della fontana riuscisse a sovrastare così degnamente tutto il traffico. L’acqua che dalla vasca superiore cade qui davanti, incontra la pietra alla base del corpo centrale, perciò acuisce la riproduzione veritiera di una cascata in natura. Sugli altri due lati invece l’acqua cade più in là, direttamente nella vasca triangolare acuminata che qui va a finire quasi come prua incagliata nell’aiuola. Non a caso questa punta mi ricorda gli angoli acuti del tetto dell’ex albergo Arizona (1957) in via Massagno, non lontanissimo da qui, firmato pure Carloni e Camenisch.
In breve, la fontana è composta da due triangoli isosceli sovrapposti, senza formare, a volo d’uccello, una stella di Davide. Il corpo centrale, dove ci sono i gabinetti, è fatto di pietre provenienti dalle cave di granito della Riviera ticinese e si eleva come certi nuraghi sardi o i tetti dei trulli pugliesi. Un signore venuto qui con un deambulatore per anziani, si siede sulla prima di queste tre panchine e fuma la sua pallmall. L’omaggio della fontana-cascata disegnata da Tita Carloni è ovvio, lo sa anche il Gigi di Viganello come si dice da questi parti: è la Casa sulla cascata (1939) di Wright in Pennsylvania. Tutta la vegetazione attorno, pensata con cura, completa l’idea. Eppure il soprannome datole dalla gente del quartiere rende ancora meglio l’idea di questa grande fontana: il sombrero. La fontana ribattezzata come il copricapo messicano è nota, agli abitanti di lungo corso della zona, anche per una scenografica bravata negli anni settanta. Il Gigi non di Viganello né quello «amoroso» della canzone di Dalida, ma il Gigi di Molino Nuovo – oggi un mio compaesano amante di pantaloni di velluto e cardigan colorati – versa un fustino di detersivo dentro la fontana: la schiuma che ha fatto la raccontano ancora oggi in certi bar non solo di questo quartiere popolare. Il signore una panchina più in là si alza a fatica e mi indica la fontana senza dire niente, solo un gesto di apprezzamento con la mano e se ne va. Il giorno dopo, alla stessa ora, è sempre lì a fumarsi la sua pallmall. La fontana sombrero (281 m) di Molino Nuovo, in estate, va detto, è un gran rifugio per chi è costretto a rimanere in città. Oltre al rilassamento provocato dalle tre cascate cittadine che formano un velo, c’è un certo refrigerio. Anche l’azzurro piscina provocato dalle piastrelle a quadrettini del fondo vasca, dona il suo contributo distensivo. Di bagni fuori luogo stile fontana di Trevi ce ne sono stati parecchi, ma trovo più balordi quei politici che volevano, non molto tempo fa, abbatterla. Meno male che il sindaco Marco Borradori ha risposto: «la fontana non si tocca».
Anni fa avevo osservato un losco andirivieni, dietro, all’entrata dei gabinetti. «Chioschi di decenza» la definizione nel faldone Carloni che tra l’altro, nel suo libro Pathopolis (2011), riguardo agli ultimi anni di attività, si autodefiniva «architetto di condotta». Mai appurato se avvenissero cose turche, ora però per approfondire questo reportage, un salto giù nei cessi devo farlo. Si sentono le pompe idriche portare su l’acqua, nessuna scritta indecente. Il cucuzzolo in alto, da dentro, fa quasi cupola degli hammam fatimidi visti al Cairo e i buchi sembrano quelli di un’ocarina. Tornato alla mia panchina preferita, il vecchietto è sparito e una mamma con la carrozzina ha preso il suo posto. Alla cieca lancio un cinque ghelli del 1959.