In mezzo a un bosco di Berna c’è una fontana creduta miracolosa già dai celti, certi credono persino che l’acqua provenga dalla Jungfrau. Questa sug-gestiva provenienza viene sfatata dal laboratorio chimico cantonale: l’acqua in questione non cambia da quella del rubinetto del vicino quartiere della Länggasse. Eppure, ogni giorno, diversi bernesi vanno lì ad abbeverarsi e riempire le bottiglie da portare a casa. Dalla stazione imbocco la Länggassstrasse. È una bella mattina di fine estate e la cosa migliore è farsela tutta a piedi. All’incrocio con la Bremgartenstrasse, un cartello indica Glasbrunnen. La fontana di vetro, a venti minuti da qui, nel cuore del Bremgartenwald, in realtà è di vetro solo nel nome.
Entro nel bosco e m’incammino a cuor leggero lungo un ampio sentiero. Nei pressi del brusìo in loop dell’A1, sorprendono tre caprioli dal manto rossiccio. Il nome, per alcuni, deriva dalla trasparenza vitrea dell’acqua. La raccontastorie Andrea Hofman ipotizza invece, in un articolo uscito l’estate scorsa sulla «Berner Zeitung», un nesso con una leggenda e con i gioielli di vetro – blu, giallo, carminio – ritrovati in alcune tombe celtiche non lontane. Un bosco poliziesco un po’ da Derrick questo Bremgartenwald, diverse strade ciclabili, molto jogging, quelli con il cane non mancano.
Nella leggenda contenuta nella raccolta Kinder und Hausmärchen der Schweiz (1869) di Otto Sutermeister, è per desiderio di una bella vergine molto capricciosa e corteggiata che spunta – grazie all’incantesimo di una fata del Bremgartenwald e madre di un suo spasimante – «la fontana di pietre preziose blu, giallo, carminio». Perciò, visto che per i celti il vetro era considerato pietra preziosa, l’autrice dell’articolo citata prima, intrecciando la leggenda della fontana e i ritrovamenti tombali scintillanti, immagina attraverso questi due indizi combacianti, l’origine del nome. Tra l’altro in tedesco vergine si dice Jungfrau, ecco forse da dove viene la credenza a proposito dell’improbabile percorso dell’acqua dalla montagna omonima. Un’altra credenza spiega la venerazione per questa fontana: giù in fondo c’è l’anima di tutti i bernesi morti, viventi, e futuri.
Ci siamo, a un crocevia di tre strade si riconosce lo scroscio. Sullo spazio bianco bullonato al palo, al centro di uno dei tre cartelli gialli con su dieci destinazioni, la scritta Glasbrunnen e sotto: 548 m. Scendo in una radura. La vasca è in pietra, il corpo da dove sgorga possente l’acqua sembra un masso erratico o un menhir. L’acqua è trasparente; sul fondo, tanti sassolini offerti. Lo sbocco da cui escono centodieci litri d’acqua al minuto è una fessura di ferro arrugginito simile alla bocca di un pescegatto. Una tubatura recisa e schiacciata che ha il suo fascino. Bevo con le mani a coppa: altro che acqua del rubinetto. La freschezza è impareggiabile, l’inspiegabile purezza indubbia all’istante, di certo è ottima. Sopra il tubo conficcato nel menhir ci sono mazzolini di fiori votivi tra i quali cardi mariani, more, un mostriciattolo in peluche. Viene naturale lavarsi la faccia e bere ancora a piene mani. Non ci vuole l’incrollabile fede degli induisti che bevono l’acqua del Gange, per capire che faccia bene, quest’acqua.
Mi siedo su una delle sei panchine di legno verde marcio. Seduto, aspetto le mie prede. Tempo cinque minuti e un signore si abbevera, riempie la borraccia e sparisce tra gli alberi. Sette sentieri portano qui, eccone un altro. Arrivato alle mie spalle in bicicletta supermoderna, un giovane sveglio che non sem-bra avere grilli per la testa. Beve diretto dalla fontana, sul fianco sinistro. Poi si sposta a destra e tracanna da lì. Si lava i gomiti, la faccia, infine giunge le mani in preghiera. Il pensiero corre veloce al Trattato di storia delle religioni (1972) di Mircea Eliade: «Il culto delle acque dimostra un’impressionante continuità. Nessuna rivoluzione religiosa ha potuto abolirlo». Gli chiedo se viene qui ogni giorno. «Più volte al giorno, è una fonte di super energia» mi risponde sorridente e sereno.
In un’ora e un quarto pesco diciassette seguaci dell’acqua rigenerante boschiva. Bevo ancora direttamente, un sassolino di tufo dalla curiosa forma piramidale appoggiato sopra lo sbocco prima non c’era. Riempio una bottiglia da un litro e m’incammino senza meta tra i cinguettii. Incredibile che proprio qui, all’altezza della fontana di vetro, sfrecciavano i bolidi della formula uno: il Grand Prix di Bremgarten che ha avuto come ultimo vincitore Juan Manuel Fangio il ventidue agosto 1954. Secondo un reportage recente della «NZZ» ora qui si aggirano ex hippie diventati una colonia di Homo selvaticus. Ma sarebbe anche ora di rivelare la mia idea fissa da quando ho incominciato a indagare su questo luogo: la bara di vetro nel bosco dove giace Biancaneve. Innevata in eterno, da una panchina del parchetto Kleine Schanze, tra non molto, come sempre quando sono a Berna, non rimane dunque che perdersi a guardare in lontananza, la fiabesca Jungfrau.