Idea apparentemente balorda la visita, in pieno inverno, a una fontana. Ep-pure, per la controversa fontana che torreggia nella Waisenhausplatz di Berna, questo è proprio il periodo più propizio. Passando di lì l’anno scorso per caso, seppure a conoscenza della sua esistenza, mi aveva lasciato a bocca aperta: uno spettacolo inaspettato tutta ricoperta di stalattiti di ghiaccio. Una tarda mattina verso metà febbraio imbocco così la Speichergasse e in pochi minuti sbuco in faccia alla fontana di Meret Oppenheim (540 m). L’effetto cascata ghiacciata leva un po’ meno il fiato dell’altra volta, ma quel pomeriggio parecchi erano i gradi sottozero e tutti i giornali parlavano di «freddo siberiano». Le stalattiti non mancano, diverse si sono già sciolte, qualcuna è caduta per terra, andando in frantumi.
All’alba, prima di partire, ho controllato le temperature: tre gradi sottozero la notte poi di giorno purtroppo risale. Condizioni meteo perciò non perfettissime per lo spettacolo glaciale che rapirebbe anche il passante più frettoloso. Comunque sono arrivato in tempo per repertoriare diversi ghiaccioli traslucidi che pendono dagli scultorei depositi calcarei. La fontana a forma di faro concepita da Meret Oppenheim (1913-1985), artista surrealista nata a Berlino e sepolta a Carona, famosa per quell’iconica tazzina ricoperta di pelliccia di antilope intitolata Le déjeuner en fourrure (1936), è cambiata molto nel corso di quasi trentasei anni. Inaugurata il venticinque novembre 1983, lungo la superficie di cemento cilindrica tutta nuda, si vedeva solo una gronda in alluminio che scendeva a spirale, spezzettata in frammenti, alla fine dei quali, sgocciolava l’acqua. Inframmezzata alla gronda a zigzag, si snodava una spirale erbosa che credo venisse in parte innaffiata, attraverso gli stacchi da un pezzetto di gronda all’altro. Con il tempo il deposito calcareo ha quasi preso il sopravvento sull’opera, alta dieci metri, crescendo a dismisura. In alto, ai piedi di una specie di tempietto, spuntano lunghi steli d’erba secca, mentre il muschio ha colonizzato tutta una zona trovando il suo habitat verticale. Ventidue tipi di muschio sono stati identificati in questo strambo ecosistema cittadino. Mi avvicino e rischio di scivolare sulle lastre di ghiaccio attorno. Nel 2013 l’Oppenheimbrunnen è stata molto discussa. Pezzi di concrezioni erano caduti, qualcuno parlava di instabilità e pendenza da una parte tipo torre di Pisa, alcuni sostenevano un restauro radicale, altri che il mutamento e la riconquista della natura sul cemento facevano parte degli intenti dell’opera. «Potrei urlare» così si lamentava il nipote incompetente sulle pagine di «Der Bund» per il presunto degrado della fontana della zia. Una curatrice del Kunstmuseum di Berna ne elogiava invece la mutevolez-za, fiancheggiata dall’ex direttore del giardino botanico che da anni ne stu-diava la spericolata flora difendendo a spada tratta, al di là del valore artisti-co, questo insolito microcosmo così com’era diventato. Alla fine della fiera, nel settembre di quell’anno, si sceglie un risanamento lieve, asportando però, secondo la «Berner Zeitung», quattrocento chili di tufo calcareo e perdendo diciotto specie di piante. In realtà tutto sembra sia stato preservato da restauri cretini e la fontana della Oppenheim vive la sua vita. Come ha fatto la giovane Meret partendo da Berlino per Parigi. Musa di Man Ray, al di là della colazione in pelliccia – comprata già all’epoca dal lungimirante MoMA di New York per duecento franchi – molti l’hanno in mente immortalata nuda al volante dell’erotizzato torchio per stampa, con il palmo della mano sporca d’inchiostro vezzosamente sulla fronte. La bellezza di questa fontana, sorta come regalo di Berna per i settant’anni dell’artista svizzera che ha vissuto per anni nella capitale, dimora proprio, mi sa, in queste concrezioni calcaree fuori controllo simili al cancro arboreo.
Non tutti i bernesi però la vedono di buon occhio, a tanti, apertamente o meno, non è mai andata a genio. «Scheissdreck» mi risponde senza peli sulla lingua uno spazzino interpellato per un suo rapido parere. Il collega rincara la dose, i due con l’Oppenheimbrunnen ce l’hanno a morte. Mi dicono che crea solo sporcizia, tra terra, acqua, pezzi che si staccano, ghiaccio dappertutto. Una signora anziana una volta si è rotta una spalla cadendo. Qui vicino, a qualcuno, deve essere andata peggio. Ci sono ceri, rose, qualche foglio con su scritto qualcosa per ricordare Kilian. Un ventenne morto in cella la notte tra Natale e Santo Stefano. Infatti la Waisenhaus qui davanti, ex orfanotrofio che dà il nome a questa piazza da mercato, oggi è la sede della polizia: abuso di anfetamine, dicono. Oltre all’idea di un faro disertato preda di vegetazione d’azzardo, mi viene anche in mente un nido per cicogne allucinate, una roccia eremitica vista secoli fa in un quadro di Hieronymus Bosch, un palo per la coltivazione delle piccole cozze atlantiche. Mi serve, presto credo, un tazzone di caffè-crème. In men che non si dica sono alla Turnhalle. Bar arioso con anelli ginnici e lampadari a corona dove la sera fanno concerti e che in origine, come dice il nome, era una palestra ginnasiale di fine Ottocento.