C’ero stato una domenica di marzo quindici anni fa, con una mia ex, per la mostra di Rothko. Mi aveva talmente colpito che non sono più tornato, paura di sciupare il ricordo di quella bellezza totale. Negli occhi avevo ancora lo scorcio del museo con lo stagno di una pace tipo gli stagni accanto agli antichi templi di Kyoto. Mi volto a salutare i due basilischi color verderame sul tetto della stazione di Basilea e salgo sul tram numero sei fino alla Badischer Bahnhof.
La fondazione Beyeler nasce nel 1997 per desiderio di Ernst Beyeler (1921-2010): gallerista basilese tra i più importanti del dopoguerra secondo il «New York Times» e che è partito da commesso in una libreria antiquaria specializzata in buddismo e stampe giapponesi al nove della Bäumleingasse, diventata poi la sua galleria. Alla Badischer Bahnhof si cambia, il due, fermata Fondation Beyeler a Riehen (276 m). Comune di ventunmila anime circa, tra Kleinbasel e il Baden-Württemberg, dove scendo una domenica pomeriggio di metà novembre.
La Beyeler, si sa, è opera di Renzo Piano: architetto genovese classe 1937 diventato famoso per il Pompidou di Parigi (1977) ma ingaggiato da Beyeler per via del riuscito museo che accoglie la Menil Collection a Houston (1987), del quale qui si ritrova qualcosa. A pieni vetri, antimonumentalità, luce zenitale filtrata, pilastri rettangolari. Qui però Piano, assieme alle idee di Beyeler, si è superato. Già solo il porfido rossastro-rosaceo della Patagonia che ti rapisce appena scendi dal viaggetto in tram, è da sogno. Scelto, pare, sul posto, da Beyeler stesso che tra l’altro ha insistito per la diversità di colore dei blocchi, è poesia pura al pari di certi quadri di Klee con i quadratini. E richiama cromaticamente un po’ l’arenaria rossa della cattedrale di Basilea. Ed eccolo il rigoroso stagno dove sono inzuppati due dei pilastri che sostengono l’arioso tetto bianco. L’acqua arriva fino alle vetrate e dona una calma a tutto l’edificio. C’è Kandinsky, Marc e il gruppo Der Blaue Reiter ma poteva anche esserci Pinco Pallino.
Nella sala numero quattro è il paesaggio fuori che m’invade con la sua fuggevole grazia autunnale: i colori sorpassano quelli di Jawlensky, Werefkin, e compagnia bella. E inquadrati negli otto spazi rettangolari della vetrata che abbraccia anche lo specchio d’acqua e due dei quattro muri portanti lunghi centoventisette metri, sono ancora più pittorici. Del resto «la natura resta il bene più importante, più importante dell’arte, la filosofia, la letteratura» afferma Beyeler nel libro-intervista La passione per l’arte (2003). Uno sguardo serio va comunque gettato all’Improvisation 10 (1910), quadro rivoluzionario di Kandinsky appeso per tutta una vita nel salotto di Beyeler e sua moglie Hildy. Niente male la Grosse Promenade: Leute im Garten (1914) di August Macke. C’è parecchia gente. È domenica, chiaro, perdipiù ai primi freddi è ideale rifugiarsi qui.
Da sindrome di Stendhal la sala sette della collezione permanente: quattro Giacometti in un colpo solo e due belle tele stordenti di Barnett Newman. L’epocale L’uomo che cammina (1960) va verso le due grandi donne coeve. La disposizione, va da sé, non è casuale. «Credo siamo arrivati a una stanza in movimento» confessa Beyeler a Christophe Mory nell’appassionante libro citato prima. Le famose ninfee di Monet non sono appese nella sala a loro dedicate, ma le potete vedere giù sotto, su un tavolo, in restauro. Mentre fuori, nel tanto amato stagno davanti, delle ninfee soniche si formano a intermittenza, increspando la superficie dell’acqua grazie a degli altoparlanti subacquei dell’installazione Water Lilies (2012) di Walter Parreno. La luce zenitale, dosata con delle lamelle mobili sul tetto, è uno dei punti di forza di questo luogo dell’anima. Nel Jardin d’hiver longitudinale che è un corridoio con vista sui campi, ci sono dei divani bianchi e cataloghi di vecchie mostre da sfogliare.
Fuori, cinque arnie in fondo al campo che costeggia la Wiese. Tra l’altro, in svizzerotedesco, Beyeler significa apicoltore come amava ripetere il sobrio ed elegante signor Beyeler con la faccia da ritratto vivente. Caratteristico l’occhio destro spesso strizzato in una smorfia accattivante. Lassù sulla collina di Tüllingen, i vigneti giallicci di blauburgunder sono messi in riga per bene. Attraverso senza particolare attenzione le sale di Roni Horn. In fondo ecco ancora uno stagno, in mezzo un triste coniglio gigante in bronzo di Thomas Schütte che vomita acqua. Esco e lo raggiungo. Anche qui dietro, spunta dalle mura patagoniche il tetto da pagoda epurata. E di nuovo quell’impressione spaesante da Giappone benché non ci sia mai stato in Giappone. Tutte le intuizioni che ha avuto il signor Beyeler sono venute mentre remava con il suo compare di canottaggio sul Reno: «un fiume che porta lo sguardo verso il mare» citando ancora Beyeler. Nel giardino si accende il rosso di un acero giapponese che si riallaccia a certi rossi Blaue Reiter dentro in mostra.