Un tempo vigeva una distinzione abbastanza netta tra quelle che oggi sono definite patologie psichiche – epilessia, schizofrenia, ansia, depressione, demenza senile ecc. – e quelli che l’etica e la morale religiosa definiva «vizi». Ma oggi anche il vizio viene spesso classificato tra le forme di patologia mentale: si pensi al «vizio del gioco», o alla pedofilia, che tendono ad essere considerati una malattia, un’ossessione compulsiva che travalica i freni inibitori della morale e della ragione. Senonché, questi sconfinamenti dal normale al patologico sono largamente instabili, perché i confini delle due zone si ridefiniscono continuamente nel corso delle culture: si pensi alla pedofilia, che oggi, secondo taluni, può essere dovuta a uno scompenso mentale, ma che nell’Atene di Socrate non solo era pratica corrente, ma veniva addirittura considerata una prassi educativa per avviare il giovane alla condizione adulta. O, al contrario: il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, che costituisce uno dei sistemi di classificazione delle psicopatologie più utilizzati in tutto il mondo, nelle ultime edizioni ha rimosso dal suo elenco l’omosessualità, che nelle edizioni precedenti veniva inserita tra le malattie psichiatriche. Insomma, dal «normale» al «patologico» il passo è breve; o anche, frequentemente, si va e si torna.
Ancora: la malinconia (letteralmente, nell’etimologia greca: «umore nero»), oggi è chiamata «depressione» ed è il disturbo mentale che viene più frequentemente diagnosticato dagli psichiatri. Eppure, Aristotele identificava nella malinconia il segno dell’uomo di genio: non proprio una patologia, dunque, ma una forma d’eccellenza. In effetti, l’accostamento di genio e follia, che verrà teorizzato nel Romanticismo, dispone a suo sostegno di una casistica sconfinata: Torquato Tasso per sette anni fu internato nell’ospedale di S. Anna, tormentato dalle grida dei pazzi, in una cella angusta infestata da cimici, pidocchi e scarafaggi. Soffriva di mania di persecuzione e vedeva ovunque spie che volevano ucciderlo e rubargli i manoscritti, ossessionato dall’idea di essere denunciato all’Inquisizione e finire sul rogo. Gaetano Donizetti, il delicato cantore dell’Elisir d’amore, subì in pochi mesi la perdita del padre, della madre e della moglie, che aveva abortito un figlio deforme; dopo la morte di altri tre figli, completamente solo, cadde in uno stato confusionale e un nipote lo fece rinchiudere nel manicomio di Ivry, dove morì tre anni dopo. I primi sintomi di schizofrenia si manifestano in Friedrich Hölderlin all’inizio del 1800; nel 1806 viene internato in manicomio; fu poi rinchiuso in una torre sulla riva del Neckar: lì visse per 37 anni, fino alla morte, in uno stato di mite demenza, suonando il piano e scrivendo strani versi. Robert Walser fu internato in un ospedale psichiatrico nel 1929 fino alla morte, nel 1956. E poi Nietzsche, van Gogh, Robert Schumann, Antonin Artaud, Ezra Pound…
Sì, la follia e la genialità, la creatività artistica e scientifica vanno spesso a braccetto. Purtroppo, non basta una depressione a fare un creativo, e la follia ha poi moltissime forme e manifestazioni, non tutte socialmente innocue. Ma, riandando alla lista dei geni che ho ricordato e ai tanti altri dei quali siamo a conoscenza, viene da rabbrividire pensando alle orribili condizioni di reclusione alle quali veniva condannata la patologia mentale. È un indubbio progresso, dunque, che la follia non sia più considerata una punizione divina o una possessione demoniaca, com’è stato per un lungo percorso di secoli dell’era cristiana; e che anche gli ospedali neuropsichiatrici non siano più luoghi di segregazione e di rifiuto. Insomma, anche per quanto riguarda i disturbi mentali la logica dell’inclusione avanza: cosa più che giusta, visto che diventa sempre più difficile definire il concetto di «normalità» e che i casi di disturbi psichici sembrano in crescita costante; a parte l’invecchiamento della popolazione, che ovviamente concorre a moltiplicare le forme di demenza senile, l’OMS prevedeva, già alla fine del secolo scorso, che la vera emergenza per l’umanità del Duemila sarebbero stati i mali della psiche. Insomma, sembra di dover dare ragione all’Ariosto: quando Astolfo va sulla Luna a cercare il senno di Orlando, impazzito d’amore per Angelica, vi trova senni innumerevoli e infinite altre cose perdute dagli uomini; l’unica cosa che lì non si trova è la pazzia, «che sta qua giù, né se ne parte mai».