La Fille de Mai a Bourrignon

/ 13.05.2019
di Oliver Scharpf

«In faccia e a nord di Bourrignon, nella comba che si estende da Lucelle a Pleigne, si erge la Fille de Mai, la dea Maia, la vergine-madre dell’antichità, un tempo adorata su queste alture». Così inizia una delle Légendes jurassiennes (1897) raccolte da Arthur Daucourt, a proposito di una roccia biancastra alta trentatré metri a forma di donna. Eccola là, emergere superba sopra i faggi, nascondendo pudicamente il resto del corpo tra il fogliame del bosco. Da questa distanza, sulla strada in aperta campagna alla fermata Pré-Poussin, sembra anche un po’ l’elmo degli stemmi araldici o un pedone degli scacchi. Ma soprattutto, la testa senza volto, ricorda molto quella di certe veneri paleolitiche. Nessun sentiero è indicato, non dovrebbe però essere complicato raggiungerla per via diretta, salendo dalla strada laggiù che passa ai suoi piedi. Un ruscello allieta questa strada persa tra pascoli e campi nel territorio di Bourrignon, paesino rurale a quattordici chilometri da Delémont. È la Lucelle appena nata che si getta poi nella Birsa a Laufen, dove è conosciuta come Lützel.

Il prato scosceso sotto la Fille de Mai, gigantesca statua agreste che viene naturale non tradurre, è recintato elettricamente come i pascoli dappertutto intorno. Levo lo zaino e passo sotto, avanzando acquattato. M’inerpico non convintissimo dell’itinerario. Nel bosco ripido scivolo di continuo sulle foglie. Senza un ramo come bastone, impossibile salire. Colpisce il biancore dei sassi calcarei, il tubo nero di plastica già notato prima con disappunto, appare ancora tra le foglie. Capisco solo adesso: lo afferro con la sinistra e riprendo l’ascesa. È necessario per arrampicarsi fino alla roccia druidica che ora intravedo. Sarà anche la repentina fatica imprevista ma pare un barbapapà. Personaggi dei fumetti creati negli anni settanta dalla coppia Annette Tison e Talus Taylor, il cui nome deriva da come si dice zucchero filato in francese. Sono sfinito eppure m’inerpico a perdifiato, non per sport, piuttosto per sfregio alle vertigini di tutta una vita. Mollo il salvifico tubo nero che indica la scorciatoia per soli matti e grazie al bastone arrivo distrutto, un pomeriggio di maggio, al cospetto della Fille de Mai (727 m).

In controluce, vista così da vicino, è piuttosto incredibile. Monolite giurassico colossale a forma di busto di donna senza volto, eretto di punto in bianco, in mezzo al bosco. E non stupisce per niente sia stata venerata come personificazione rocciosa della dea Maia: dea della fertilità e del risveglio della natura in primavera che ha lasciato il suo nome a questo mese. Il primo maggio, i romani, le offrivano infatti un sacrificio. Mentre qualche secolo prima, da quell’incavo raggiungibile con una scala grezza scolpita nella roccia, a piedi nudi in bianchi vestiti di lino, officiavano le sacerdotesse celtiche facendo colare, a fiumi, il sangue sacrificale. Più liete le canzoni del primo maggio che le ragazze di Bourrignon venivano qui a cantare, brandendo in mano un ramo fiorito di biancospino. Si accendevano anche dei falò danzandoci intorno e saltando sopra le braci; se riuscivano a non bruciarsi si sposavano entro l’anno. Un tempo, alle feste di primavera qui nel bosco, partecipava tutto il villaggio. Solo i monaci della vicina abbazia di Lucelle, in Alsazia, non le vedevano di buon occhio. Una volta un giovane monaco cistercense originario di Bourrignon che passava di lì, riconosciuto dai paesani, viene invitato a danzare. Gira, gira, dimenticando tutto, elettrizzato dalla danza furibonda. Al rintocco di mezzanotte, il monaco cade a terra, morto. La leggenda racconta che da secoli, lo sventurato ritorna ogni anno, al dodicesimo rintocco delle campane del primo maggio, a danzare intorno alla Fille de Mai.

La roccia sacra risalente, dicono, al Giurassico superiore, vale a dire circa centocinquanta milioni di anni fa, compie allora un giro su se stessa. Qui accanto ci sono i resti di un fuoco. Tra le fronde si apre uno scorcio con pascoli collinari, un pezzo di cielo, qualche nuvola. Fuori dal mondo, ben connesso con la natura, alle quattro in punto di pomeriggio, mi sembra proprio una divinità femminile di tre quarti, la testa inclinata. Esercita qui in faccia, se guardata a valle, tutta la sua forza magnetica. Yves Rondez, il cuoco del Lion d’Or dove sono andato oggi a pranzo per la famosa carpa fritta – deliziosa e degni di nota anche gli inusuali sorbetti alla susina dalmassina, regina claudia, mirabella, mela cotogna – mi ha detto che «i bambini della regione non li portava la cicogna né si trovavano sotto i cavoli». Sua nonna raccontava che «i bebè si andavano a prendere sotto la Fille de Mai». Se in maggio le celebrazioni bizzarre e propiziatorie del matrimonio tra la terra e il sole con rami, balli, fuochi, canti, erano in uso in diverse località d’Europa – come si scopre tra le pagine impareggiabili del Ramo d’oro (1890) di Frazer – una mia breve indagine ha scovato solo una roccia simile. Negli Abruzzi, dove è considerata la Dea Maia che piange il figlio Mercurio. Ma basta a consolidare il culto per niente insensato di questa, tutta di corallo fossile, dalla testa ai piedi. E a quanto pare, il corallo fossile presente nelle acque dell’isola di Okinawa, partecipa molto alla nota longevità dei suoi abitanti.