Era abbastanza comune, fino a non molto tempo fa, che un genitore raccontasse o leggesse una fiaba al figlio che stava per addormentarsi: il bambino scivolava nel sonno circondato da fate, gnomi, lupi mannari sconfitti, gustava il trionfo del Bene sul Male. Sognava. Credo che oggi anche questo accompagnamento al sonno infantile non si usi più: mi sembra più probabile che i genitori dicano al figlio: «Adesso guardi i cartoni animati, poi vai a nanna.» Anche se le storie illustrate nei cartoni animati si ispirano alle fiabe di un tempo e spesso ne riprendono le trame, resto convinto che il racconto udito dalla voce del genitore avesse effetti più profondi. Il bambino che ascolta la fiaba ogni tanto interrompe, fa domande; gli si può spiegare che non sempre bisogna fidarsi delle apparenze, di chi non si conosce, che il lupo cattivo o la strega possono celarsi anche dietro un sorriso benevolo; insomma, la fiaba costituisce un percorso educativo.
Un’antica fiaba tradizionale degli Indiani d’America racconta di un indiano che, camminando nella foresta, trovò un uovo d’aquila. Pensando che fosse un uovo di gallina selvatica, lo depose in un nido di galline. Così l’uccellino venne al mondo e crebbe circondato da galline e, naturalmente, apprese da loro: zampettava, beccava, chiocciava come una gallina. Poi, un giorno di primavera, guardando in alto vide un uccello grandissimo che volteggiava nel cielo azzurro muovendo le ali con leggera eleganza. Stupito, ammirato, l’uccellino chiese alle galline che uccello fosse quello, così bello. Gli spiegarono che era un’aquila, e il piccolo cominciò a fantasticare: come sarebbe stato bello poter volare così in alto, con ali così grandi, con così tanta grazia! Ma per lui era solo un sogno: poiché pensava che mai avrebbe potuto essere un’aquila, dimenticò presto quel sogno e visse tutta la vita convinto di essere una gallina selvatica. Come tutte le favole anche questa è istruttiva – ma lo è, in questo caso, non tanto per i bambini, quanto per gli adulti educatori.
Sappiamo bene che l’ambiente educativo può essere determinante per la crescita dell’individuo e per la formazione della personalità; negli ultimi decenni ha ripreso vigore anche la tesi dei tratti innati, congeniti, del carattere, ma al momento attuale mi pare si sia raggiunto un ragionevole compromesso: parte del carattere è ereditario, parte acquisito nelle relazioni sociali. Ci sono bambini che nascono con tendenze più aggressive, altri tendenzialmente più miti, alcuni con maggiori e altri con minori predisposizioni all’empatia e all’altruismo; ma poi l’educazione può rafforzare o indebolire i tratti caratteristici. In ogni caso, più si avanza nella vita, più i tratti del carattere si fissano e diventano stabili; e allora può avere un fondamento ragionevole la sentenza che Eraclito formulava nel VI secolo a.C.: «Il carattere di un uomo è il suo destino.»Ecco perché, quando ancora mi capita di sentire qualche sostenitore dell’educazione permissiva che ritiene che al ragazzino tutto debba essere concesso, penso che un simile «educatore» non voglia bene al bambino: ne sta tracciando il destino – un destino probabilmente infelice. Sono passati decenni da quando dilagava la moda della pedagogia permissiva o antiautoritaria, eppure ci sono ancora educatori che sostengono che il bambino deve «crescere libero», imparare da se stesso; non escluderei, però, che questo permissivismo sia sostenuto non tanto da una convinzione pedagogica, quanto, piuttosto, dall’intento di scaricarsi della faticosa responsabilità di educare. Così pensava, già decenni or sono, il sociologo Franco Ferrarotti: «Il timore di apparire moralisti ha fatto pesare un’ipoteca paralizzante sui responsabili dei processi educativi, a cominciare dai genitori che hanno spesso scelto il silenzio per la paura di non essere sufficientemente ‘di mente aperta’ e che hanno, più o meno surrettiziamente, delegato la loro vocazione educativa ai mezzi di comunicazione di massa.»
Magari, libero di fare tutto quel che vuole, il ragazzino che cresce da bulletto arrogante e prepotente può anche godere di un’infanzia piacevole; può sognarsi come un’aquila in un allevamento di galline. Ma quando la vita avrà fatto il suo corso il ragazzo dovrà smettere di vivere in sogno e dovrà calarsi nella realtà: e allora è probabile che si riconosca come un pulcino, debole e inetto. Forse, se da piccolo gli avessero raccontato qualche fiaba, quell’antica saggezza l’avrebbe aiutato a crescere.