Il problema dell’olio di palma è molto serio. È inutile perder tempo con altre sciocchezze, la pace nel mondo, la deriva populista, l’onda femminicida. Fino a qualche tempo fa, nessuno di noi sapeva che cosa fosse l’olio di palma. A domanda avremmo pensato a un abbronzante, un lenitivo, un idratante, qualcosa di simile all’olio di cocco. Invece scopriamo che trattasi di olio vegetale (ovviamente) dall’infimo costo, largamente utilizzato nei prodotti dolciari e in generale da forno. È risultato quindi che i nostri bambini assumono dosi molto alte di un olio ricco di acidi grassi saturi, quelli «cattivi» che apportano solo danni, colesterolo, obesità, diabete.
Naturalmente, perché è sempre così che finisce, il pessimo soggetto si nasconde tra le cose più buone, come le merendine, i biscotti, la Nutella. I produttori si sono sentiti come bambini colti con le mani, appunto, nella marmellata, o nella crema di cioccolato. Alcuni si sono autodenunciati, sperando di sortire un buon effetto come gli studenti di John Keating-Robin Williams nell’Attimo fuggente, che salivano sul banco per difendere il loro professore. Così, sulle pagine dei giornali dichiarano: noi usiamo l’olio di palma, ma lo produciamo così bene che il nostro sembra quasi innocuo. Altri invece dichiarano di non saperne nulla, olio di che?, e si trincerano dietro il diniego: noi non usiamo né abbiamo mai usato quella schifezza dell’olio di palma.
Per esser più convincenti, lo scrivono sulle confezioni: brioche senza olio di palma, biscotti senza e così via. Presi da sacro zelo, e dalla speranza di trarre vantaggi commerciali da tale crociata, scrivono «senza olio di palma» anche su confezioni di cibi che in ogni caso sarebbero impensabili in associazione al famigerato ingrediente, a breve troveremo insalata senza olio di palma, e così bistecca, acqua minerale, caffè miracolosamente privi del torbido intruglio. Scatta così quel meccanismo del «non avere» che avevamo già illustrato in una Postilla del 2014 (del 25 maggio, credo), quella dedicata alla ricetta della pasta con le «sarde a mare», cioè della pasta come si cucinerebbe con le sarde, ma senza le sarde che sono, dunque, beatamente nel mare.
Il gioco filosofico è sottile, di origine antica: la classificazione di ciò che esiste avviene per genere e differenza, come descrive il cosiddetto «albero di Porfirio». Davanti a un gatto, lo puoi definire vivente (genere), poi animale (differenza da vegetale e da inanimato). Animale come genere si differenzia in mammifero, che come tale si differenzia in quadrupede, poi felino, poi domestico, poi carnivoro e così via, fino ad arrivare all’individuo, alla Biri che mollemente dorme sul calorifero, e che non può più avere differenze da se stesso. Mi scuso con i biologi, le ramificazioni di quella che poi diventerà la classificazione di Linneo non mi sono esattamente note, ma ci siamo capiti.
Questo sistema di ordine della realtà è sempre andato bene, e anche quando i filosofi hanno detto macché genere macché specie, esiste solo l’individuo povero e solo, andando dal fruttivendolo non chiedevano quella e quella mela, chiamandole per nome, ma chiedevano un chilo di mele. I figli li avranno mandati a una scuola per bambini, non alla scuola Pinca per il bambino Pallo e così via. Non dunque i filosofi hanno scardinato il sistema, nella pratica, ma dove non è giunta la ragione è arrivato il mercato. Quella che vedi ti sembra una crostata qualunque, genere dolce, specie di pastafrolla, genere con marmellata, specie con marmellata di albicocche. Invece io ti dico che si tratta di una crostata senza olio di palma, senza glutine, senza zucchero, senza burro, senza lattosio, senza uova, senza tutto ciò che potrebbe nuocere a un intollerante allergico celiaco obeso diabetico. La mia crostata, caro compratore che la vita ha offeso con tutti i danni or ora elencati, è la migliore, perché la sua definizione è raffinatissima, quindi di molti livelli superiore alle altre crostate. A proposito, è senza zuccheri raffinati.
Sarà buona? Farà bene? Che pretese, lo sai che non ho certo aggiunto aromi artificiali. Se è «buona» perché non ha ingredienti potenzialmente «cattivi», sii felice di questo, abituati a un cibo insapore e incolore, che pagherai di più (con tutte queste differenze!) e che non esiga da me altra fatica del togliere, e vedrai la differenza.