È difficile stabilire se Donald Trump abbia davvero cambiato il suo approccio in politica estera, ma all’Onu la sua ambasciatrice Nikki Haley sembra esserne certa. Dopo l’attacco chimico di Bashar al-Assad, rais siriano, contro il proprio popolo, a Idlib, l’America ha deciso di reagire, con un blitz all’alba del 4 aprile, 59 missili su una base aerea del regime di Damasco. Qualche ora prima, alle Nazioni Unite, la Haley aveva mostrato le foto dei bambini colpiti dal gas, corpicini morti o mezzi vivi, con gli occhi fissi, perché uno dei sintomi del sarin sono le pupille ferme, appunto, e la schiuma dalla bocca. Non è la prima volta che un ambasciatore americano si presenta all’assemblea del Consiglio di sicurezza con delle prove, ci furono le famigerate fialette di Colin Powell che portarono alla campagna d’Iraq; ci sono stati, negli ultimi anni, scambi infuocati tra l’ambasciatrice obamiana Samantha Power e i diplomatici russi, ma la Haley con le sue pause di commozione e lo sguardo fiero ha avuto un risalto quasi unico: è pur sempre l’ambasciatrice di un presidente che fin dalla campagna elettorale ha ripetuto che del mondo – e di Assad in particolare – non gli importava granché, America first.
I commentatori si dividono: c’è chi pensa che l’improvvisazione sia l’unica cifra del trumpismo, e che in questo caso il blitz sia stato determinato da due fattori rilevanti nel processo decisionale di Trump: la figlia Ivanka, che di fronte alle immagini dei bambini uccisi pare sia andata dal padre a dire che no, non si poteva lasciare impunito un atto criminale di quella portata; le immagini appunto, che sono quelle che colpiscono di più il presidente, al punto che il commentatore antitrumpiano Max Boot sostiene che la dottrina Trump non sia altro che «quello che mi ha sconvolto ieri sera guardando la tele». Lo scetticismo nei confronti della cosiddetta «svolta interventista» americana è molto alto tra gli esperti, che anzi sottolineano come sia soltanto la politica interna a guidare le scelte del presidente, America first appunto: c’era bisogno di dissipare un pochino la nube dell’ingerenza russa sulla campagna di Trump e sul suo staff, e le parole dure utilizzate nei confronti di Assad e del suo padrino russo, Vladimir Putin, a questo sono servite.
Ma c’è dell’altro. Il documento che è stato pubblicato dal Consiglio per la sicurezza guidato dal generale McMaster qualche giorno dopo il blitz contiene due punti importanti: il primo è fissare dei paletti alla propaganda putinian-assadista sui fatti siriani; il secondo è fare un appello internazionale agli alleati su una strategia comune contro chi ricorre ad attacchi chimici per domare l’opposizione interna, come ha fatto Assad – è la fine dell’impunità. Da anni la propaganda russa investe sul dubbio: non è Assad che usa il gas, sono i ribelli a lui avversi a farlo. Questa operazione di controinformazione è stata così potente che ancora oggi è molto diffusa la convinzione che gli assadisti «non hanno convenienza» a perpetrare certi attacchi, e per questo non possono essere loro gli autori di tali crimini.
McMaster e il suo Consiglio ribaltano questo paradigma, dimostrando con fonti di intelligence che soltanto il regime di Assad ha la possibilità – e l’intenzione – di reprimere l’opposizione utilizzando armi chimiche. E ne aggiungono un altro, di paradigma: un richiamo internazionale, per niente isolazionista, a evitare che si ripetano attacchi di questo genere. È la prima volta – Obama non l’aveva mai fatto – che l’Amministrazione americana esercita una pressione sul regime di Damasco che non riguarda esclusivamente la possibilità di una rappresaglia di una notte, ma uno sforzo di prevenzione più ampio. Trump esclude che ci sia un’operazione militare di ampia portata, ma quando definisce Assad «un animale» e «un male» dà un nuovo slancio a un processo di transizione del potere in Siria fino a ora impantanato.
Ancora una volta non si sa se questa linea dura sia destinata a resistere. Ma quando la settimana scorsa l’ambasciatrice Haley si è presentata all’Onu con una delle dichiarazioni umanitarie più potenti degli ultimi anni, il sussulto interventista si è rianimato: per la prima volta, ha twittato la Haley alla fine della sessione, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha guardato alle «connessioni tra guerre e diritti umani su richiesta degli Stati Uniti»: «Le violazioni dei diritti umani e gli abusi non sono una conseguenza incidentale dei conflitti – ha detto la Haley – Spesso sono la causa dei conflitti». Se una nuova dottrina c’è, l’ambasciatrice all’Onu di Trump ne è la portavoce, il volto più noto, con lo sguardo fiero.