«Sono entrata nel giornale con entusiasmo e ottimismo tre anni fa. Sono stata assunta con l’obiettivo di portare sul giornale voci che altrimenti non sarebbero apparse sulle vostre pagine: scrittori alle prime armi, moderati, conservatori e altri che non avrebbero naturalmente pensato al “Times” come alla loro casa. La ragione di questo sforzo era chiara: il fatto che il giornale non fosse riuscito ad anticipare l’esito delle elezioni del 2016 rivelava una conoscenza non sufficientemente profonda del Paese».
Comincia così la lettera d’addio al «New York Times» di Bari Weiss, ormai ex editorialista. Prima di lei se n’è andato James Bennet, responsabile della sezione Opinioni. La sua responsabilità? Aver pubblicato l’intervento di un senatore repubblicano, su un giornale vicino al partito democratico. Ma la vera colpa di Bennet e della Weiss è non essersi uniformati al clima da caccia alle streghe che vige negli Stati Uniti.
Il politicamente corretto è nato nelle università americane come forma di rispetto per le minoranze, e in genere verso i diritti e le sensibilità di ognuno. Una giusta dose di politicamente corretto servirebbe in ogni contesto sociale, a cominciare dalla politica italiana, dove ci si paragona quasi quotidianamente a Goebbels o a Stalin, vale a dire ad alcuni dei peggiori figuri nella storia dell’umanità.
Ma la dittatura del politicamente corretto ha esasperato quello slancio iniziale. L’ha trasformato in un movimento completamente diverso, percorso da una vena fanatica, illiberale, intollerante. È quello che hanno cercato di dire i 150 intellettuali che hanno firmato la Lettera sulla giustizia e sul dibattito aperto, pubblicata da «Harper’s Magazine». Tra loro ci sono pensatori come Noam Chomsky, da sempre vicino alla sinistra radicale, scrittori perseguitati dall’intolleranza religiosa, come Salman Rushdie, e la mitica J.K. Rowling, la mamma di Harry Potter, da sempre finanziatrice del partito laburista. Il manifesto denuncia che le giuste rivendicazioni sul tema caldo del razzismo hanno finito per mostrare il volto violento di una protesta, che per le strade riversa la sua furia contro le statue – comprese quelle di un grande italiano come Cristoforo Colombo – e nei luoghi della cultura esercita una censura cieca: vietato citare certe opere letterarie, o vedere certi film. L’impressione però è che il manifesto dei Centocinquanta sia caduto abbastanza nel vuoto.
L’articolo di addio di Bari Weiss centra un punto importante. L’America liberal, di cui il «New York Times» è il faro, non ha visto arrivare Trump. Non ha capito che la Reazione negli Stati Uniti esiste, e può anche vincere le elezioni. Trump sarà probabilmente sconfitto il prossimo 3 novembre, perché le congiunzioni astrali non si ripetono mai due volte; e sarà un bene per tutti, per gli americani e pure per noi europei. Ma all’evidenza l’America liberal non ha imparato la lezione. Non ha capito l’importanza di comprendere gli «altri» americani, la necessità di resistere al tribalismo, la centralità del libero scambio di idee per una società democratica.
Scrive ancora Bari Weiss: «È invece emersa una nuova opinione diffusa sulla stampa, ma forse soprattutto su questo giornale: che la verità non è un processo di scoperta collettiva, ma un’ortodossia già nota a pochi illuminati, il cui compito è quello di informare tutti gli altri. Twitter non figura nel colophon del “New York Times”, eppure ne è diventato il direttore editoriale.
Nel momento in cui l’etica e i costumi in voga sulla piattaforma sono diventati quelli del giornale, il giornale stesso si è trasformato sempre più in una sorta di palcoscenico. Le storie sono scelte e raccontate in modo da soddisfare un’audience più ristretta e selezionata possibile, piuttosto che permettere a un pubblico curioso di leggere del mondo di trarre poi le proprie conclusioni».
Sono parole forse un po’ troppo pessimiste. Il «New York Times» non è mai stato così in salute, continua ad aumentare i suoi abbonamenti digitali, macina record di clic: all’evidenza ha un pubblico, intercetta una tendenza, detta una linea.
Ma non è detto che sia una linea maggioritaria, destinata a durare. Lasciamo alla Weiss l’ultima parola: «Mi è stato insegnato che i giornalisti scrivono la prima bozza della storia. Ma la storia stessa ora è diventata effimera, modellata per soddisfare le esigenze di una narrazione predeterminata. Le mie stesse incursioni nel “pensiero sbagliato” mi hanno reso oggetto di continuo bullismo da parte di colleghi che non sono d’accordo con le mie opinioni. Mi hanno definita una nazista e una razzista…».
E infine: «La verità è che la curiosità intellettuale oggi al “Times” è considerata un disvalore. Perché pubblicare qualcosa di stimolante per i nostri lettori o scrivere qualcosa di audace per poi trovarsi a doverlo anestetizzare per renderlo ideologicamente kosher, quando possiamo mettere al sicuro i nostri posti di lavoro (e i clic sul sito) pubblicando il quattromillesimo articolo su Donald Trump pericolo numero uno per il Paese e per il mondo? Così l’autocensura è diventata la norma».