Un’amica è preoccupata: il suo nipotino, alla domanda «cosa vuoi fare da grande», non ha risposto il calciatore o l’astronauta, ma lo scultore. È un bambino sensibile, la maestra gli ha raccontato di quando gli scultori davano martellate sulle ginocchia di Mosè per farlo parlare. Per dimostrargli che non è più così, ho consigliato alla mia amica di portare il nipotino alla GAM, (Galleria d’Arte Moderna di Torino) per visitare la mostra Viaggio al termine della statuaria con capolavori della scultura italiana dal 1940 al 1980, facenti parte della collezione del museo. Apre la mostra il Ritratto di Eva del 1942 di Edoardo Rubino. Con Eva viene meno l’obbligo della sintonia fra opera e titolo. Un esempio fra i tanti: Donna al sole di Leoncillo. Blocchi di terracotta impastati a mano e accatastati uno sull’altro, non sapremo mai se a caso o seguendo un preciso disegno. Lo contempli e immagini l’artista in piena estasi creativa: è al mare, ha pranzato con frutti di mare crudi, ha appena saputo che uno dei commensali s’è preso il colera. Per arginare l’ansia crea un capolavoro. Se invece di Donna al sole l’intitolava La fine del Titanic non sarebbe cambiato niente.
Nei decenni dal ’40 all’80 del secolo scorso, l’Italia era piena di rottami, di depositi di ferri vecchi, a questi artisti non mancava di certo la materia prima. Questo spiega l’ampiezza e la pesantezza di molte opere. Domando al curatore: sono assicurate contro il furto? La risposta è un secco «no» ma lascia trasparire un retro pensiero: magari qualcuno se le portasse via. È vero che sono di proprietà del museo ma per far fronte alle spese di trasporto bisogna ogni volta accendere un mutuo. Per i collezionisti privati il discorso cambia, per essere autorizzati a tenere in casa uno di questi capolavori, devi dimostrare che tutti i componenti della famiglia hanno fatto l’antitetanica. Ti alzi di notte per andare in bagno, ti muovi al buio, è un niente andare a sbattere con uno spuntone dell’opera e ferirsi. Vista a distanza di così tanti anni sembra che questi scultori abbiano avuto una vita facile: vai dal più vicino deposito, ti compri per due lire una carrettata di sfasciume e via con la creatività. Invece, se fai caso con attenzione ai cartellini appesi alle pareti, scopri una sequenza di drammi famigliari. Li svela l’ultima riga: «dono dell’autore». È fin troppo facile indovinare la sequenza degli eventi. Per realizzare il tuo capolavoro hai bisogno di uno spazio adeguato, la sala di casa tua o il garage. Prometti: appena lo finisco lo metto in vendita. Trascorrono i giorni, nessun gallerista o collezionista o fondazione, si fa vivo.
La moglie è furibonda: mi spieghi come faccio a pulire in quella stanza? Dove le ricevo le mie amiche? Oppure: spiegami perché devo tenere la mia auto in strada, sotto la pioggia o la grandine. Terminata l’opera e trovato un titolo è ora di venderla. Non è che trovi dal mattino alla sera un collezionista o che Amazon sia disposto a venderla. Alla fine l’artista cede: se nessuno la compra la regalo. Non si può respingere un dono, però deve essere riciclabile: le due bottiglie di Barolo che mi hanno regalato le porto alla famiglia di amici quando mi invitano a cena, e così via. Ma una tonnellata e passa di capolavoro? Cominciano le scuse dei beneficiati: grazie, non sono degno di tanto onore, posso solo tenerla nel sottoscala ma devo sentire prima cosa ne pensano gli altri condomini. Piovono i consigli non richiesti. Hai provato con il Comune? Alla fine del calvario chiede udienza alla GAM. Provano a resistere, fanno domande: quanto spazio occupa? Quanto pesa? Aspetta un attimo, dobbiamo prima trovarle un posto. Alla fine si arrendono: va bene, la prendiamo, però ti occupi tu di farcela recapitare. Così lo scultore finisce per indebitarsi per pagare le spese di trasporto.
Nessuna forma artistica potrebbe funzionare se non influenzasse in qualche modo le nostre percezioni attraverso le attese da noi nutrite (Ernst H. Gombrich). Una scultura di Gilberto Zorio si può raccontare come una ricetta di cucina: prendete una stella di bronzo, mettetela verticale contro il muro, appoggiatela su una barra di ferro orizzontale con le due punte immerse in due vasche di terracotta: quella di sinistra contiene solfato di rame, quella di destra acido idro cloridrico. Io ci avrei messo, a sinistra l’aceto balsamico e a destra avrei grattugiato una noce moscata. Ma non sono un artista.