La democrazia imbrogliata

/ 23.11.2020
di Orazio Martinetti

La democrazia è un congegno delicato, un prodotto di meccanica fine, costruita pezzo per pezzo nelle piazze e nei parlamenti, tra successi e sconfitte, progressi e repentini arretramenti. Un percorso in cui s’intrecciano diritti politici e conquiste civili, un patrimonio mai messo in sicurezza una volta per tutte, ma sempre esposto agli assalti di autocrati e oligarchi. Succede soprattutto nei paesi dell’ex blocco orientale, dove la tradizione più nobile del liberalismo politico non ha mai messo solide radici. Ma insidie e imprevisti possono insorgere anche nei sistemi più maturi e collaudati, come s’è visto nel corso delle ultime elezioni americane, complice la macchinosità delle procedure. In questo caso basta sollevare dubbi sulla legittimità del voto, gettare un po’ di sabbia negli ingranaggi per screditare l’intera architettura. È una manovra che i populisti coltivano con maestria, confidando nella memoria corta dell’elettorato: essere nel contempo dentro le istituzioni e fuori; collocarsi dunque su un doppio binario, quello governativo e quello rivendicativo.

Su questo punto occorre però distinguere tra cortocircuiti fisiologici e derive patologiche. Alla prima categoria appartengono le sorprese, il caso inopinato. Intoppi sempre possibili, che tuttavia non corrodono le fondamenta dell’edificio democratico. I lettori ricorderanno il duello del 2011 tra Monica Duca Widmer e Marco Romano per il seggio al Nazionale: contesa finita in parità e risolta ricorrendo al sorteggio. Anche la corsa per il Consiglio degli Stati del 2019 tra Marina Carobbio e Filippo Lombardi è stata vinta dalla prima con pochi voti di scarto (46). Due episodi curiosi e rari, che tuttavia non hanno portato alla delegittimazione del sistema da parte dei soccombenti. La patologia è altra cosa: è il tentativo, condotto scientemente, di smantellare l’intera impalcatura costituzionale, comprese le regole del gioco concordate in precedenza; uno svuotamento che vediamo all’opera soprattutto là dove le istituzioni appaiono più fragili e scarsamente puntellate dalla società civile.

Come detto, per giungere anche in Ticino alla definizione di una democrazia funzionante ed inclusiva il cammino è stato lungo e tortuoso. Un percorso irto di ostacoli, che parte dal censo (due secoli fa) per approdare al suffragio femminile (1969). In mezzo, tanti traguardi parziali, tante baruffe, tante leggi e leggine, riforme e riformette, «trappole» di vario genere, coi partiti impegnati a trarre il maggior profitto possibile da tornate elettorali sempre contestate. Sì, perché al momento del voto rispuntava il fantasma dei brogli, delle schede orientate e controllate, degli emigranti richiamati in patria, dei defunti che improvvisamente risuscitavano nelle cabine elettorali. Una prassi che la stampa d’oltralpe attribuiva al «temperamento sanguigno» dei ticinesi ma che accompagnò il voto anche nel secolo successivo, attraverso espedienti sempre più raffinati. Ancora nel 1948, in un rapporto inviato al governo, il procuratore pubblico Brenno Gallacchi poté lamentare la persistenza della corruzione elettorale. Questa la sua conclusione: «A conti fatti, quanta delusione, quanta amarezza, quanto rammarico e rimpianto, negli stessi vincitori che devono pagar le cambiali e le fatture degli osti per forniture di vini e di salsicce. E il denaro speso avesse almeno fruttato l’acquisto del voto; nove volte su dieci l’elettore prende la moneta e vota come gli pare. E ride in cuor suo della burla riuscita». Non pareva insomma possibile estirpare tale malvezzo dalle pratiche dei partiti: evidentemente il civismo degli elettori era malfermo, mentre oltre modo sviluppata sembrava a Gallacchi la «malizia umana», espertissima «nell’escogitare i mezzi fraudolenti di accaparramento delle coscienze e dei voti».

Oggi tutti questi trucchi e mezzucci sanno di muffa, retaggio di un malcostume consegnato agli archivi. I cittadini esprimono il loro parere per corrispondenza; basta aprire e chiudere una busta, e pazienza se la segretezza del voto – argomento in passato di infinite diatribe – non è più garantita. La prossima tappa sarà il voto elettronico da casa, davanti ad uno schermo, stazione finale di un processo deliberativo sempre più guidato da centrali di potere occulte. Si arriverà così alla «democrazia dei followers», come profetizza lo storico Alberto Mario Banti nel suo ultimo saggio? Gli anni a venire ci diranno se la democrazia finirà nelle mani dei baroni del web, potentati lontani e imperscrutabili, o se, all’opposto, saprà dotarsi dei necessari anticorpi per evitare tale infausto destino.