La cultura diffusa in un mondo globalizzato identifica l’Africa a Sud del Sahara come la terra di missione per eccellenza. L’ancora incompleta adesione di larghe porzioni di popolazione alle «religioni missionarie» dominanti, Cristianesimo ed Islam, farebbe da controparte «culturale», nell’immaginario collettivo, al cronico sottosviluppo di quelle stesse parti del continente. Si tratta di uno strascico culturale dell’epoca coloniale nella declinazione di quella «missione civilizzatrice» che lo giustificò ieri e continua oggi nella versione aggiornata di quello che alcuni hanno chiamato «accanimento sviluppista». Ma, come al solito, le ironie della Storia sono lì a giocare brutti scherzi. Non solo – come è salutare – la Chiesa Copta africana, coi suoi circa 60 milioni di fedeli, risale al I secolo dopo Cristo essendo fondata sulla predicazione di Marco ai tempi di Nerone, ma è sopravvissuta all’islamizzazione laddove l’intera fascia del Maghreb di cultura romano-bizantina fu convertita – in un modo o nell’altro – nel giro di poco più di cinquant’anni dopo ben sette secoli di cristianizzazione. Se a questo si aggiunge il fatto che le ultime sacche di resistenza del cosiddetto paganesimo in Europa durarono nella Prussia di lingua baltica fino al XVII secolo (la Lituania essendo divenuta nominalmente cristiana solo nelle prime decadi del XV secolo), allora ci accorgiamo di quanto errata sia la vulgata che vorrebbe un’Europa intrinsecamente «cristiana» contrapposta e pronta a convertire un’Africa per definizione «pagana».
Nel 1483 una caravella portoghese al comando di Diego Caõ gettava l’ancora alle foci del fiume Kongo. Qualche tempo dopo, reso omaggio all’Imperatore del Kongo, allora la formazione politica dominante una buona parte di quell’immenso bacino fluviale, se ne sarebbe tornato in Portogallo portando con sé un’importante delegazione diplomatica. Questa fu prontamente battezzata all’arrivo a Lisbona e passò otto anni ospite di un monastero. Sarebbe poi tornata nel 1491 assieme ad un contingente di artigiani, carpentieri, fabbri, soldati – preti e doni per tutti. Ancorati a Mpinda, i portoghesi si fermarono il tempo necessario a convertire il governatore di Soyo. Era questi il potente zio matrilineare dell’Imperatore, e come tale figurava in termini di autorità e potere, quanto e forse più del padre biologico in un regime nel quale il titolo di capofamiglia spetta non al padre ma al fratello della madre. Fu questa autorità, con ogni probabilità, a facilitare il percorso di avvicinamento fra portoghesi e congolesi e spianare la via verso la capitale Kilukeni. Qui i portoghesi furono ricevuti dal Manikongo (Imperatore) e da cinque dei suoi dignitari. Nzinga-a-Nkuwu era nato nel 1470 ed era allora un vigoroso ed intelligente uomo di Stato intento ad allargare i confini dei suoi domini che già coprivano almeno 100’000 chilometri quadrati di territorio. Attento alle novità, decise di convertirsi – e far convertire con lui la moglie Nzinga-a-Nlaza e i massimi esponenti dell’aristocrazia congolese. Il battesimo si svolse in pompa magna il 3 maggio 1491. I neoconvertiti assunsero i nomi delle controparti della corte portoghese che ne divenne una sorta di «doppio»: così Nkuwu assunse il nome di Joao I, la moglie Nlaza di Leonor mentre il figlio Nzinga-a-Mvemba, che lo avrebbe succeduto, ricevette il nome di Afonso. Pochi giorni dopo mille operai congolesi costruivano una cattedrale con le maestranze portoghesi.
Una favola: il primo incontro fra l’Europa e l’Africa avvenuto all’insegna di una pacifica e mutua «lettura» al termine della quale ci si accorda per una qualche forma di «integrazione culturale» fra le parti. Da un lato l’uso europeo per il quale il Padrino di battesimo diventa «compare» e dunque padre «spirituale» del figlioccio, dall’altro l’ideologia congolese matrilineare secondo la quale la patria potestas è prerogativa dello zio risiede nello zio materno, pace la paternità biologica. Il tutto condito con la concezione sacrale della regalità africana secondo la quale il Re si manifesta tanto nel corpo fisico tangibile quanto in un corpo mistico legato in varia misura al mondo degli antenati regali, laddove esiste come in una sorta di mondo parallelo. In tutta l’Africa a Sud del Sahara il bianco è il colore della morte, ed i bianchi erano (e sono) visti come i morti che tornano dall’Occidente, dove muore il sole e al di là delle acque, dove sta il mondo dei morti. Da laggiù, sulla linea del-l’orizzonte, nel 1483 i congolesi videro emergere gli alberi della caravella di Diego Caõ. Una favola ad amaro fine? Certamente fu il coincidere di aspettative qui-pro-quo e rispecchiamenti culturali reciproci che spetterà alla Storia Storieggiata smentire crudelmente. Ma parve – per un attimo – che la Storia potesse andare Altrimenti. Parola di Altropologo.