La cognizione del dolore

/ 21.01.2019
di Franco Zambelloni

Il titolo di questo mio scritto riprende quello di un celebre romanzo di Gadda, rimasto incompiuto: me l’hanno rammentato le tante pubblicità televisive che promettono la sconfitta del dolore grazie a farmaci contro l’emicrania, i reumatismi, le lesioni muscolari e così via. È un’altra conquista del progresso: soffrivano molto più di noi i nostri progenitori, che per lenire il dolore disponevano soltanto di qualche erbetta di dubbia efficacia. E della forza di volontà.

Oggi noi possiamo ricorrere a rimedi ben più efficaci, ma forse stiamo indebolendo la volontà di far fronte al dolore e la capacità di affrontarlo come parte essenziale della vita. Già: non può esserci – almeno per ora – un’esistenza senza sofferenza, e c’è una favola di Esopo che ne ricava una regola di saggezza.

Racconta la favola che Zeus, dopo aver plasmato l’uomo e la donna, ordinò a Ermes di insegnar loro a zappare la terra, così da ricavarne di che vivere. Ma la Terra si oppose: non voleva che l’uomo la ferisse con i solchi delle vanghe. Ermes insistette, precisò che l’ordine veniva direttamente da Zeus; e la Terra finalmente si arrese, ma non rinunciò a vendicarsi: «Allora zappino pure quanto vogliono; ma dovranno pagarlo davvero con gemiti e pianto». E la saggezza di Esopo commenta: «La favola è opportuna per quelli che con facilità prendono a prestito e con dolore poi si inducono a rendere».

Questo suo commento mi sembra una descrizione fedele di una massa sempre più numerosa di persone del nostro tempo: prendere quanto più si può, restituire il meno possibile – questa è una tendenza che mi pare si vada accentuando. Ma in ogni caso, la favola insegna che non c’è nulla che non comporti un prezzo da pagare: in primo luogo, la vita.

Dunque, come annotava il filosofo George Simmel – stroncato da un tumore al fegato nel 1918 – l’esperienza del dolore costituisce un percorso di conoscenza: comprendere la vita e viverla pienamente comporta di necessità l’accettazione di quella componente di dolore che è naturalmente intrinseca alla vita stessa. Il che non vuol dire abbandonarsi alla disperazione: il filosofo Bione, osservando un re che si strappava i capelli per il dolore, commentava con ironia: «Costui pensa forse che la pelata mitighi il dolore?». Può sembrare una battuta irriverente verso la sofferenza, ma ha un fondo di verità: è assodato che la percezione soggettiva del dolore varia da persona a persona, e che l’ansia e l’emotività individuali incidono molto sul livello di sofferenza percepita. Ad esempio, ai soldati feriti in guerra era necessaria una quantità di morfina minore rispetto ai civili con ferite analoghe, perché i soldati erano felici di allontanarsi dal campo di battaglia; e ci sono anche individui che provano un dolore di origine puramente psicogena, indipendente da qualsiasi causa organica.

Ma quel «percorso di conoscenza» del quale parlava Simmel non è affatto un invito al masochismo: al contrario, è un’esortazione a conoscere e ad accettare la vita così da affrontarla con coraggio crescente; è quella «disciplina del dolore» della quale Nietzsche ha scritto che «solo questa disciplina ha portato finora ad ogni elevatezza dell’uomo». Forse ha ragione: non conosco personalità di rilievo, nell’arte, nella scienza, nella letteratura, che non abbiano vissuto fino in fondo l’esperienza del dolore nelle più diverse forme. Una riflessione analoga la troviamo in Novalis: «Le malattie, specialmente quelle lunghe, sono anni nei quali si apprende l’arte di vivere e si forma l’anima».

Considerando tante affermazioni di questo genere, numerosissime nelle riflessioni filosofiche, mi viene da pensare che l’attuale crescente ricorso agli antidolorifici, agli psicofarmaci e agli psicoterapeuti è, almeno in parte, uno sviamento da quel percorso di conoscenza che insegna a vivere: il dolore fisico, non va dimenticato, è un sofisticato meccanismo evolutivo che agevola la sopravvivenza, un segnale d’allarme che mette in guardia contro lesioni, disfunzioni organiche, danneggiamenti del corpo. Per questo è una componente essenziale della vita; e soffocare il dolore appena si manifesta o eludere una sofferenza spirituale con la pillola della felicità può voler dire appiattire la vita in un’esistenza superficiale e apatica. Da una prova dolorosa, vinta con la volontà, si esce rafforzati, più pronti ad affrontare la vita e, magari, anche a «riderci sopra». Come ha detto qualcuno: «Chi si lamenta per il mal d’amore dovrebbe provare il mal di denti!».