La coda politica del virus

/ 28.02.2022
di Orazio Martinetti

Ripresa dell’inflazione, carenza di materie prime, crisi energetica. In coda alla pandemia stanno ritornando vecchi fantasmi, beffardi redivivi che per un paio d’anni erano rimasti acquattati nell’ombra. Eccoli di nuovo a turbare il sonno, ad aggiungere ulteriori dosi d’ansia al nostro vivere quotidiano. Che il virus ci avrebbe riservato qualche brutta sorpresa prima di svanire nello smog da cui era spuntato, lo si sospettava. Ogni pestilenza lascia tracce profonde nell’economia, nella società, nella cultura, nei rapporti di convivenza: una lunga scia di lutti, ma anche un senso d’impotenza e la triste sensazione di aver perduto anni preziosi, di aver vissuto una sorta di reclusione incolpevole definibile come deprivazione (di tempo, lavoro, studio, incontri, viaggi).

Ma l’infezione è stata anche una cartina di tornasole, perché ha svelato le manchevolezze, i ritardi, le insufficienze dei piani pandemici e del sistema di prevenzione. A molti non pareva vero che un paese come la Svizzera si ritrovasse improvvisamente smarrito e impreparato. Sconcerto, giacché si riteneva che l’esperienza maturata dopo il secondo conflitto mondiale, nel clima della guerra fredda, fosse rimasta nel bagaglio della protezione civile, dell’esercito e dell’amministrazione. E invece si è scoperto che quel pesante e capillare apparato, messo in piedi per contrastare in ogni ambito l’infiltrazione comunista, giaceva come un ferrovecchio nei bunker antiatomici: una panoplia di tute e mascherine ormai ricoperti di muffa.

Il secondo punto debole rivelato dal coronavirus riguarda la dipendenza dall’estero. Fino al 2020 era opinione condivisa dalle maggiori forze politiche ed economiche che la globalizzazione, ossia l’interconnessione universale, annunciasse benessere e prosperità per tutti sulla base della divisione del lavoro creatasi nel frattempo: da una parte l’Occidente terziarizzato (la produzione immateriale, la galassia dei servizi, la ricerca, l’intelligenza artificiale), dall’altra le «fabbriche del mondo» sparse nell’estremo oriente. «Ideato in California, prodotto in Cina», si legge spesso sulle etichette dei dispositivi elettronici di largo consumo. Ebbene, l’emergenza ha evidenziato che anche nel campo delle nuove tecnologie l’Occidente sta perdendo il primato a vantaggio dei paesi un tempo definiti emergenti. A ciò si aggiunge il timore di veder salire alle stelle il prezzo delle materie prime, non tanto perché si vanno facendo sempre più rare, quanto perché oggetto di speculazione e merce di scambio sul mercato delle relazioni geopolitiche.

Come sarà la Svizzera all’uscita dal virus? A rispondere sono due scuole di pensiero. La prima ritiene che attraverso i provvedimenti di volta in volta varati, e confermati dal voto popolare, lo Stato centrale abbia esteso e rafforzato i suoi poteri; che sia diventato un «Superstato», sempre più tentacolare e retto da una burocrazia sorda ai bisogni dei cittadini. La seconda scuola sostiene invece la tesi dello Stato forte: un passo inevitabile, pena una perdurante cacofonia tra i Cantoni. Non si vorrebbe più insomma assistere allo spettacolo messo in scena all’inizio della pandemia, allorché ogni esecutivo agiva per proprio conto senza prestar ascolto alle invocazioni d’aiuto degli altri. Il contrasto non è nuovo. Risale infatti agli albori dello Stato federale, per poi accompagnarne il cammino negli sviluppi successivi. All’inizio del Ventesimo secolo, lo schieramento cattolico e parte del movimento liberale temevano addirittura l’avvento di un «socialismo di Stato» di marca prussiana. Al moto centripeto degli unitari, i federalisti risposero con il principio della sussidiarietà, secondo il quale le istituzioni non dovevano intervenire nella sfera economica come primo battitore, ma rimanere in secondo piano e reagire solo in caso di necessità.

La dottrina della sussidiarietà è uno dei cardini della dottrina sociale della Chiesa, poi transitata nel programma liberale. In base a questa corrente, allo Stato spetta il compito di tracciare il perimetro di gioco (le celebri «Rahmenbedingungen», o condizioni-quadro), non di vestire i panni dell’imprenditore. Nella realtà dei fatti, nella liberale Svizzera questo principio si è tradotto in un predominio quasi incontrastato delle maggiori imprese attive nel paese (industriali, chimico-farmaceutiche, bancarie), ben rappresentate nei parlamenti dalle associazioni di categoria e dalle lobby. È molto probabile che la contesa tra questi due fronti proseguirà anche nei prossimi mesi, almeno fino alle elezioni federali del 2023: Stato forte contro Stato snello. Che è come dire, in buona sostanza, tecnocrazia contro lobbycrazia.