La città e la casa

/ 26.11.2018
di Franco Zambelloni

I centri urbani crescono: è normale ed è segno di vitalità, sia economica, sia imprenditoriale, sia demografica. Ma, a quel che leggo in questi giorni, si costruisce troppo: certo, «investire nel mattone» – come si usa dire – corrisponde alla speranza in una collocazione di capitali più sicura e più redditizia di quanto oggi assicurino le banche, con i loro tassi d’interesse negativi; e però, se si costruiscono più appartamenti di quanti siano i potenziali inquilini, l’investimento rischia di deludere. A Lugano gli appartamenti sfitti sono 790, ma anche a Bellinzona, Locarno, Mendrisio e Chiasso il fenomeno è rilevante.

A prescindere da qualsiasi considerazione economica, ci sono aspetti positivi nel fatto che la crescita trovi un freno o subisca un rallentamento: la città che cresce fuor di misura rischia di perdere la sua identità e di sprofondare nell’anonimato. È vero che ci sono i piani regolatori a tutelare le aree che si ritiene vadano conservate; ma una città è ben più che l’insieme dei suoi edifici: è – o almeno dovrebbe essere – una comunità. Così infatti suggerisce l’etimologia della parola «città» (da civitas), che designa l’insieme dei cittadini: nei villaggi, nei borghi, nei piccoli centri urbani questo senso di appartenenza e di identità si mantiene ancora; ma la mobilità sociale e la crescita immobiliare, costante soprattutto nei centri maggiori, tendono ad indebolire il legame comunitario. Trovo comunque una fortuna che non ci siano, nel Ticino, le gigantesche metropoli che straripano altrove, con le loro banlieues degradate e anonime, dove anche l’ordine, la pulizia e la sicurezza risultano trascurate o mancanti.

Di tanto in tanto riprendo con piacere libri che descrivono il Ticino del passato e che conservano immagini di quartieri che ora non ci sono più (come il Sassello a Lugano) o che sono irriconoscibili per le trasformazioni avvenute; e devo dire che quelle case, quei vicoletti stretti, i passanti vestiti di tutto punto o alla contadina, i piccoli negozi senza insegne luminescenti mi suscitano molta simpatia. Ma poi, realisticamente, mi rendo conto che quei luoghi sono belli da osservare in un percorso nostalgico puramente immaginario; viverci sarebbe assai meno bello. Abituati come siamo alle comodità del giorno d’oggi ci sentiremmo spaesati e a disagio. E poi, la consuetudine con il passato, che esploro sempre con curiosità in tanti libri di storia e nelle opere letterarie, mi impedisce di idealizzare troppo i mondi scomparsi. Ricordo, ad esempio, che nella Roma imperiale del I secolo d.C. Giovenale ammoniva, in una sua satira: «Chi esce di notte per andare a cena dagli amici, meglio che faccia testamento»; e ancora nell’Ottocento il poeta romano Giuseppe Gioachino Belli scrisse un sonetto dal titolo Chi va la notte va alla morte. Alessandro Tassoni, il poeta secentesco di Modena, a proposito della sua città scriveva «che nel pantan mezza sepolta siede; ove si suol smerdar da capo a piede / chi s’imbatte a passar per quella via».

Così, benché gli agglomerati urbani siano oggi assai più imponenti e ingombranti che in passato, le strade e le abitazioni sono non solo più comode, ma indubbiamente migliori per igiene, ordine, pulizia… È pur vero che queste ultime doti dipendono in gran parte da chi ci abita: proprio recentemente sono stati segnalati in qualche appartamento casi di sporcizia e di disordine difficilmente immaginabili, ma questi casi, almeno, sembrano rari. Nei secoli andati probabilmente non era così: un visitatore, entrato in una casa di Vienna all’inizio dell’Ottocento, la descrive come il luogo più lurido e più puzzolente che si possa immaginare, con resti di cibo sparsi dappertutto, vasi da notte da svuotare, abiti lerci e due pianoforti sepolti sotto un mare di polvere e di carte. Di chi era quella casa? Di Beethoven!

Anche per il grande compositore la casa restava comunque il luogo di raccoglimento e di ispirazione creativa: soprattutto quando l’incipiente sordità lo rese sempre più solitario e schivo, l’isolamento nella sua abitazione privata, per quanto in disordine, costituì il suo buen retiro. E tale dovrebbe essere, infatti, per chiunque cerchi qualche pausa di silenzio e di quiete solitaria dopo la baraonda dei supermercati e dei percorsi cittadini; in fondo, malgrado vi trovi un po’ di esagerazione, penso che ci sia pur sempre anche molto di vero nella riflessione di Pascal: «Quasi tutti i nostri mali nascono dal non aver saputo rimanere nella nostra stanza».