Appartengo a una generazione che ha vissuto gli sconvolgimenti del 1989 con un grande senso di speranza: la caduta del Muro di Berlino, di cui in novembre si celebrerà il trentesimo anniversario, cui seguì la dissoluzione dell’impero sovietico e la conseguente fine della Guerra fredda, e sei mesi prima le proteste di centinaia di migliaia di cittadini cinesi in Piazza Tien an Men (con gli studenti in prima fila, sostenuti da tutti i segmenti della popolazione, compresi soldati e membri del partito), culminate il 4 giugno 1989 con i massacri a Pechino, costati la vita a quasi 3000 persone. Eventi che hanno rafforzato la convinzione dell’importanza di studiare e ricordare la storia. Per evitare che si ripeta, per trarne gli insegnamenti nell’ottica di un miglioramento etico e morale dell’umanità intera. Infonde perciò un senso di inquietudine constatare che l’emergente potenza, la Cina, in lotta con gli Stati Uniti per il predominio mondiale, ancora oggi fa di tutto per lasciare i propri cittadini nella più totale ignoranza su quanto realmente avvenne il 4 giugno 1989, ribadendo – se proprio necessario – che si era trattato di una giusta repressione di elementi anti-sociali ed anti-cinesi, non invece il sanguinoso soffocamento di una protesta per maggiore libertà, democrazia e benessere, contro un regime totalitario, iniquo e corrotto.
Ricordiamolo: le proteste nate all’indomani della morte dell’ex leader riformista cinese Hu Yaobang, il 15 aprile, erano diventate oceaniche, al punto da spingere l’allora segretario generale del partito comunista Zhao Zhyang a parlamentare con i manifestanti su Piazza Tien an Men, a riconoscere la legittimità delle loro critiche e proteste (19 maggio). Ma l’ala dura del partito infine si impose, e Deng Xiaoping, colui che aprì la Cina all’economia di mercato, diede ordine di reprimere le proteste con ogni mezzo, quindi di massacrare i manifestanti e perseguire tutti gli oppositori. Zhao Zhyang venne destituito e trascorse i 15 anni fino alla sua morte agli arresti domiciliari. La Cina scelse la via del capitalismo senza libertà né democrazia e l’Occidente ben presto si arrangiò con questa realtà, sfruttando la possibilità di delocalizzare in Cina molte industrie per risparmiare sulla manodopera (troppo cara e sindacalizzata in Occidente, quindi poco malleabile per il padronato). I politici occidentali speravano che la crescita del benessere in Cina avrebbe prima o poi portato anche la democrazia e il rispetto dei diritti umani. Ma questo si è rivelato un’illusione, di cui ora l’Occidente paga il prezzo, con l’apparentemente inarrestabile ascesa del nuovo impero cinese.
Ignara di quel che avvenne allora, la popolazione cinese vive oggi con orgoglio nazionalistico il cammino verso la supremazia mondiale del proprio paese, che cancella le umiliazioni subite dall’Occidente a partire dalle guerre dell’oppio nella prima metà dell’Ottocento. Ma imponendo agli uni di dimenticare e agli altri di non sapere, il regime crea una narrazione basata sull’inganno che perpetua l’iniquità del sistema: nessuno oggi è al riparo dal volere del partito comunista, che può distruggere chiunque senza motivo. La «società armoniosa» che propaganda il regime è una colossale fake news che porta in sé il germe della rovina: una società basata sulla menzogna può durare solo fino a che le tensioni represse non diventano manifeste, nel caso della Cina fino a quando non subentra una strutturale crisi del sistema economico, o fino a quando il grado di repressione e controllo non supera un livello di guardia. Negare la storia è il modo migliore per diventarne vittima, prima o poi. È la convinzione della nostra generazione e l’unica speranza che resta per un mondo più democratico.