A trentanove passi da Wodey-Suchard c’è, credo, il vero tempio dei cioccolatini. All’angolo di rue du Seyon con rue de l’Hôpital, dal 1919, Walder. Tre generazioni di cioccolatai si sono fatti un nome tra gli intenditori che hanno consunto, schiarendola gradevolmente, la particolare maniglia in ottone che mi ricorda una conifera. Un nome boschivo mantenuto alto dal nuovo proprietario che grazie al cielo non ha cambiato una virgola: tutto è rimasto identico a quando gli ultimi Walder – Pierre e sua moglie Marlyse – passano, nel luglio 2017, il testimone a Luc Mayor, giornalista di formula uno. Notata la primavera scorsa in occasione del reportage-pranzo DuPeyrou, con coda prepasquale fuori, e provata l’ultima volta da queste parti, in missione truffes-miniminareto, ci torno ora, per approfondire il tema, da Walder. La cui insegna, in corsivo, nell’austerità generale del posto, si permette appena un ghiribizzo: il finale della vu doppia si allunga sopra la a.
Spingo così, un primo pomeriggio ai primi di dicembre, con l’animo combattuto tra studio e tentazione, la maniglia-abete della chocolaterie Walder di Neuchâtel (434 m). Guardandola meglio, si tratta di un tre di quadri sovrapposto che mi fa pensare di nuovo a un abete stilizzato. Del resto l’abete è il logo di una delle specialità. Forse un richiamo al nome di famiglia che con l’umlaut sarebbe boschi in tedesco, oppure una similitudine legata allo style sapin nato nel 1905 a La-Chaux-de-Fonds grazie a Charles L’Eplattenier e i suoi allievi. Magari invece è solo un omaggio ai boschi di conifere nei dintorni. Ad ogni modo, anche il décor dentro conta, nella religiosità del luogo: luce quanto basta, non molta, diffusa dai lampadari anni trenta, legno di teak, vetrinette d’antan. Una in particolare, dirige gli sguardi, dove una o due venditrici al contempo, ascoltano i desideri degli adepti. Un signore con gli occhi luccicanti, si fa riempire un sacchettino quasi tutto con cioccolatini al tè nero. Una signora parte in tromba su quelli al «cassis!» e «tonka!». «Mangue!» aggiunge ancora, alla sua litania, ma non ci sono più ed è molto dispiaciuta. Riparto con una scatola dorata da mezzo chilo più una piccola di sei pavés du château: il cavallo di battaglia inventato nel 1959, dopo un viaggio a Parigi, da Hans-Max Walder junior che dal 1950 al 1985 ha tenuto le redini del luogo con la moglie Milia. Tanzania, Santo Domingo, Caraibi, Manjari: già parti in viaggio leggendo l’origine delle fave di cacao delle sottili tavolette artigianali in vetrina.
Il mio itinerario è più modesto, salgo su in cinque minuti alla Collegiale – dove la pietra arenaria gialla di Hauterive tocca il suo apogeo di burrosità e sogni marini in viaggi di milioni di anni – accanto ai torrioni del castello. E così, seduto, per caso, sulla panchina di Balzac – una regale e insolita panchina in pietra vista Collegiale, lago, resti del castello – e protetto da tre bei lupi (opera in bronzo di Davide Rivalta), incomincio la degustazione con i pavés al latte. Cubetti con superficie quasi irrequieta come la copertina di Unknown pleasures (1979) dei Joy Division o quantomeno corrugata: dentro praliné sognanti dei quali conosco adesso il piacere e capisco la notorietà. E il tipo che l’altra volta ha chiesto due scatole da sessantaquattro pezzi. «Il loro cuore è fondente, il loro rivestimento croccante» ha scritto Olga Yurkina sulle pagine de «Le Temps». Non di minor pregio sono i cioccolatini al tè nero nepalese; e i nougat, straordinari, racchiusi sotto un tetto di tre quadratini di nougatine ricoperto di glassa al cioccolato al latte o fondente. Per non parlare dei lulù, forse i miei preferiti. E i poussenion, dove sopra si ritrovano tre abeti e il cui nome è tratto dal patois locale: significa lo spuntino serale di un tempo, quando l’orologio della Tour de Diesse scoccava le dieci e poi a nanna.
Nessuna preoccupazione di orario, adesso, con i poussenion, opera di Hans-Max Walder senior – fondatore della chocolaterie il ventidue maggio 1919 – per sua moglie Rosa. Quelli alla crema di mandorla, da provare appoggiati sul pane (boulangerie Mäder) che ne prolunga il piacere. La panchina Balzac si chiama così perché, a quanto pare, nel 1833, qui ha dato il primo bacio a Madame Hanska. I tonka poi: yum, sono la fine del mondo e mi torna in mente Willy Wonka.