La chocolaterie Auer di Ginevra

/ 04.03.2019
di Oliver Scharpf

Nel bel mezzo di quei gelidi inverni ginevrini pervasi dalla bise, l’unica via di fuga sembrava essere la cioccolata calda di Auer. La presenza dell’ottone satinato che incornicia le due vetrine è l’insolito prologo, risalente agli anni settanta, di questo rifugio singolare qui al quattro di rue de Rive dal 1939. Rapida occhiata alle scatole di cioccolatini in vetrina, rapisce lo sguardo soprattutto un gigantesco bicchiere per margarita ricolmo di amandes princesses. Apro la porta accanto, quella che introduce in uno dei più piccoli tea-room al mondo. Una stanza tutta in mogano, tranne gli specchi. Nove minuscoli tavolini ovali in marmo, abbracciati da due ali di poltroncine in pelle capitonné tra il bordò scuro e il color prugna. Non ci sono sedie, sette mini sgabelli bassi casomai, sempre in pelle, dello stesso colore. Quasi in tinta con la sciarpa al collo di Christin, la signora che da decenni si occupa di preparare e servire cioccolate calde, cappuccini, spremute, caffè, tè. Simpaticissima non è mai stata, perlomeno ha il grande pregio di risparmiare salamelecchi inutili e pietose smancerie da bar insulso.

Sui tavolini, sotto campane di plastica trasparente, stretti vicini uno all’altro come reggimenti, ci sono i famosi pignons: tortini cilindrici a base di pinoli. Poi comuni sandwich al prosciutto, formaggio, salame. E macarons al cioccolato enormi, fuori scala. Il tutto a libero servizio, poi si fanno i conti. Il tipo seduto qui a fianco non so quanti panini imbottiti – di quelli al latte, lunghi e morbidi – si è mangiato, più due pignons. L’intimità tra clienti è la particolarità del posto che bisognerebbe sapere quando si varca la soglia di questo buco elegante; ci si siede vicini uno all’altro come in uno scompartimento dei treni anni trenta. Quando uno parla, anche di fronte, benché non si ascolti e si faccia il possibile per astrarsi, si sente tutto. Una coppia da spremuta d’arancia, vicino all’appendiabiti e alla pianta d’appartamento nell’angolo, parla in spagnolo di una loro nevrotica amica in comune.

«Mescoli bene in fondo» è la frase di rito che accompagna la cioccolata calda. Dopo pochi sorsi è un tuffo nell’infanzia, non ci sarebbe neanche bisogno di dirlo, al quarto riaffiorano ricordi invernali di quasi vent’anni fa dai quali emerge preciso il sorriso di una ragazza pigra in pullover di lana shetland, poi al quinto ti godi il presente e ti senti di colpo a casa. «Non potevo staccare la bocca dai bordi deliziosi della tazza» scrive Maupassant a proposito di una cioccolata calda nei Racconti della beccaccia (1883). Le ultime ricerche dell’Università della Pennsylvania, a quanto pare, dicono che su dei cocci ritrovati nella foresta tropicale, nell’attuale Golfo del Messico, tracce di teobromina collocherebbero i primi sorsi di cioccolata calda alla civiltà olmeca: un migliaio di anni avanti Cristo. «Bonjour Christian!»: per nome viene salutato un cliente abituale «un po’ indietro di cottura» come diceva la zia Ilda, coccolato a voce da Christin che gli porta un caffè offerto dalla vicina di tavolino. Tre pignons vengono incartati e messi in borsetta da un’altra habitué appena arrivata chez Auer.

Henri Auer parte da Pontresina e approda a Toulon, in Costa Azzurra, nel 1820. Inizia così la dinastia degli Auer che dall’Engadina al Mediterraneo – tratto comune a molti pasticceri grigionesi l’emigrare al sud fondando epocali pasticcerie come per esempio Klainguti a Genova, Caflisch a Napoli e Palermo, Caviezel a Catania – passando per Berna, arrivano a Ginevra. Negli anni venti, oggi è la quinta generazione. Come la confiserie-chocolaterie Auer di Nizza, la loro cugina nata nel 1890 e reputata per la frutta candita. Le magistrali amandes princesses hanno invece fatto la fama della chocolaterie Auer (377 m) di Ginevra, dietro le quinte della quale, il direttore d’orchestra è Philippe Auer; cinquantenne premiato nel 2007 come «meilleur chocolatier de Genève». Rimarchevolissima inoltre è la scelta controcorrente di non moltiplicarsi in altre filiali cittadine come la Chocolaterie Rohr o la rinomata Chocolaterie du Rhône che adesso c’è anche a Dubai, perdendo, ai miei occhi, ogni motivo di interesse. Un tea-room in miniatura in pieno centro a fianco di un negozietto, nel cuore delle Rues Basses, bastano.

Balzo sul tavolino di fronte e prendo un pignon ben imbrunito. A morsi, la sua morbidezza s’intercala agli ultimi sorsi della mia cioccolata. Le orchidee in vetrina, in compagnia delle immancabili arance, un primo pomeriggio molto mite di fine febbraio, guardano passare i tram. Me ne vado ed entro accanto. Senza farmi distrarre dalla distesa tentatrice di cioccolatini, riesco a uscire soltanto con una scatola di amandes princesses da regalare. E cento grammi così, da passeggio. Le mandorle sono tostate, caramellizzate, ricoperte da una coltre spessa di cioccolato al latte, e spolverate di cacao. Per strada, una dopo l’altra, incominciano a sparire. Di una bontà spietata, non lasciano scampo, neanche trecento metri. In place du Molard, dove inizia Il tè delle tre vecchie signore (1941) di Friedrich Glauser, finiscono.