Si avvicinano le elezioni federali e uno dei dati che fa più clamore è l’aumento considerevole di candidate rispetto al passato: il 40,3% delle liste per il Consiglio nazionale è costituito da donne, con una crescita del 5,8% rispetto al 2015. L’aumento è dunque considerevole, tenendo conto del fatto che sono passati solo quattro anni da quel precedente appuntamento elettorale e che la mentalità e i modi di vita non sono cambiati molto in questo breve periodo: sembra quasi di assistere a un’onda che cresce in altezza via via che si precipita verso la riva.
Lasciandoci alle spalle una tradizione millenaria siamo giunti a riconoscere l’uguale dignità dei sessi e, conseguentemente, l’eguaglianza giuridica che deve sancirla; dunque, la richiesta di un numero di donne in Parlamento uguale (o magari superiore) a quello dei maschi può anche sembrare superflua: l’uguaglianza è data dai diritti, non da una parità numerica; e il diritto ad essere elette le donne svizzere ce l’hanno. Le statistiche demografiche dicono poi che le elettrici sono più numerose degli elettori: perciò, se le cittadine svizzere lo volessero, potremmo avere un parlamento solo femminile. Ma, soprattutto, è dubbio che il sesso sia un requisito importante in un rappresentante del popolo: a mio avviso, per le funzioni e i compiti che i politici sono chiamati ad esercitare, la testa conta ben più di altri attributi.
È comprensibile, peraltro, che si voglia aumentare la rappresentanza femminile negli organi legislativi per accelerare il processo della parificazione di fatto dei diritti tra uomo e donna: ci sono diseguaglianze che ancora perdurano e che vanno annullate. Ma questo è un compito che un parlamento, anche se fosse solo maschile, avrebbe il dovere di perseguire, perché la tutela dei diritti è compito primario di chi rappresenta il popolo, indipendentemente dal suo sesso. E in effetti, il 7 febbraio 1971, quando le donne svizzere ottennero il diritto di voto e di eleggibilità a livello federale, furono gli uomini (che ancora erano gli unici votanti) ad approvare questo diritto con una maggioranza del 65,7%. Ma è pur vero che il riconoscimento di questo diritto avveniva 123 anni dopo che i cittadini maschi avevano acquisito il diritto di voto.
Come annota Lotti Ruckstuhl nel suo libro Sul suffragio femminile in Svizzera, «la data del 7 febbraio 1971 segna la trasformazione strutturale più importante nella Confederazione a partire dalla fondazione dello Stato federale. Dopo 123 anni di dominazione maschile, le donne sono divenute cittadine a parità di diritti». Da allora, l’avanzata del riconoscimento dei diritti per le donne è proceduta senza sosta: nel 1975 fu celebrato l’Anno internazionale della donna e il quarto Congresso svizzero delle donne decise di far introdurre nella Costituzione il principio della parità dei sessi; e poi, su questa base, si giunse alla legge federale, entrata in vigore nel 1996, come misura contro la discriminazione delle donne nell’attività professionale. Dunque, parità a pieno diritto; oppure, a volte, anche a diritto più che pieno: l’AVS, in Svizzera, fu introdotta con un’età di pensionamento uniforme, per uomini e donne, a 65 anni; ma due revisioni (nel 1957 e nel 1964) ridussero per le sole donne l’età di pensionamento, prima a 63 e poi a 62 anni; successivamente si passò a 64 anni.
Insomma, sembra ormai tramontata, e forse per sempre, la convinzione dominante nei tempi passati dell’inferiorità della donna rispetto all’uomo, del suo dovere di sottomissione, della sua incapacità di prendere decisioni razionali. Ora, in regimi democratici, ci sono donne di potere come Angela Merkel, Theresa May o Marine Le Pen; l’avanzata delle donne sembra accelerare impetuosamente, come al ritmo della wagneriana cavalcata delle Walkirie.
Lo scorso giugno migliaia di manifestanti sono scese nelle piazze elvetiche per rivendicare la parità dei sessi: chissà, forse si avvicina il tempo in cui la presenza politica femminile supererà, negli organi istituzionali, quella maschile. E allora cosa succederà? Gli uomini scenderanno in piazza per rivendicare pari diritti? Quando, nel 1991, a seguito di uno sciopero delle donne furono presentati diversi atti parlamentari richiedenti l’introduzione di un sistema proporzionale anche per i sessi, sarebbe stato forse opportuno che si accettasse la strategia delle quote: così sarebbe stata garantita, anche in futuro, la presenza maschile in Parlamento.