La cattedrale che fu pagata in anguille

/ 13.02.2017
di Cesare Poppi

Ci è dato (o forse è meglio dire ci tocca) vivere in un’epoca nella quale ci piace parlare di «natura» come di qualcosa indipendente dall’attività umana. Il modello prevalente di conservazione dell’ambiente, modellato su un’idea di «natura naturale» prevalente dai tempi di formazione dei Parchi Nazionale americani (Yellowstone, 1872), prevede che the wilderness escluda sistematicamente l’interferenza del fattore antropologico. Per quanto riguarda il continente europeo, è segnato dalla specifica storia di cul de sac dove popolazioni su popolazioni che muovevano da Est a Ovest si sono impaccate almeno dall’Età del Bronzo fino a colonizzarne gli angoli più remoti e gli ecosistemi più ostili.

Non vi è dunque prospettiva più fuorviante che pensare al paesaggio europeo come wilderness. Dalle praterie alpine, risultato di millenni di pascolo e di fienagione, agli stagni costieri, alle lagune ed altre features del paesaggio, il lavoro umano ha modellato, deviato, spianato e scavato il paesaggio toscano come quello delle valli dolomitiche, la murgia pugliese come la costiera romagnola, i polder olandesi come la Murcia iberica. Al punto che, con quella rivoluzione culturale a tutti i livelli della realtà antropologica che fu il passaggio dalla Pax Romana alla Pietas Cristiana, l’addomesticamento della Natura divenne un mandato che andava di pari passo con la missione di salvare le anime. Molte delle grandi fondazioni ecclesiastiche sorsero infatti in territori acquitrinosi e paludosi.

Nel Nord Italia, ad esempio, quell’immenso caos di acque emerse, ristagni e imbancamenti di terre alte che era la pianura padana mano a mano che si drenavano le acque del Mare Padano, ebbe nelle abbazie benedettine un fattore fondamentale nella trasformazione di lande malariche nei terreni agricoli fra i più fertili d’Europa. Se le risaie del vercellese costituiscono la memoria storica dell’acqua come fondamentale protagonista della storia padana, le pinete costiere che dal Ravennate al Riminese marcano la zona immediatamente a ridosso, le dune del litorale raccontano invece la storia opposta. Le abbazie degli ultimi secoli prima del Mille – prima fra tutte forse Pomposa – sorsero col preciso intento di governare le acque. Occorreva da un lato impedire che l’acqua utile alla terra l’abbandonasse, mentre d’altro lato occorreva che quella inutile la aggredisse: arginare le paludi di Comacchio, riserva ricchissima di pesce andava dunque di pari passo con l’impedire al mare di sfondare e riportare tutto al largo. Ecco allora che i monaci intrapresero un lavoro millenario di rimboschimento dei litorali coi pini marittimi.

Il monachesimo benedettino, con la formula «Ora et Labora» e la sua globale presenza continentale, fu l’interprete e l’imprenditore ideale a condurre quel movimento di «costruzione del paesaggio» che rappresenta l’approccio europeo alla Natura. E torniamo così nel territorio delle Fens, a nord di Cambridge, dove già si trovava l’Altropologo non più di due settimane fa. È qui, in questa vasta zona di terre basse, nere e pesanti all’aratro, intersecata da fiumi e canali costantemente sull’orlo di campi e pascoli, con un mare ostile e non lontano pronto ad inghiottirsi interi paesi, che lo sforzo di articolare Lavoro e Preghiera ha prodotto uno dei risultati più spettacolari. L’hanno chiamata La Nave Arenata nelle Fens. La cattedrale di Ely si eleva per 66 metri su di una lunghezza della navata centrale di 163 su di un imbancamento di terre alte visibile da miglia tutt’attorno.

Ely deriva da eel, termine anglosassone per anguilla. E le anguille sono state per secoli l’oro delle Fens, pescate a milioni e commerciate fino in Olanda sotto il controllo di una potente Gilda di Mastri Pescatori. La prima fondazione ecclesiastica ad Ely porta il marchio reale: fu infatti Santa Etheldreda, figlia del Re dell’East Anglia, a fondare qui un’abbazia di monaci e monache nel 672. Dopo una serie di raid vichinghi, nel 970 fu rifondata come abbazia benedettina – l’Ordine al tempo di gran moda, e tale rimarrà fino alla Riforma protestante, quando, estinto l’ordine per legge, divenne sito cattedrale della Chiesa Anglicana. Ma la storia della costruzione attuale comincia nel 1102, poco dopo la conquista normanna, con la firma di un contratto per la fornitura di pietre da costruzione con la non lontana abbazia di Peterborough. Il prezzo della cattedrale? Ottomila anguille all’anno.

La costruzione del colosso di pietra si protrasse per anni – e per decine e decine di migliaia di anguille. Tormentata da drammatiche crisi nella storia amministrativa dell’abbazia, dalla morte di abati intraprendenti e dall’ascesa di autorità politiche ostili al potere abbaziale, la cattedrale di Ely appare oggi come un impressionante accrescimento di navate e contrafforti, cappelle laterali ed aggiunte successive tenute assieme da arcate di rinforzo quasi come se non vi fosse mai stato un piano di costruzione definitivo che potesse conferirle la simmetria di una vera cattedrale. E storta e sbilenca la costruzione fu fin dall’inizio. Il cantiere fu tormentato da crolli da subito: il terreno paludoso semplicemente non reggeva il peso delle guglie ambiziose e dei contrafforti troppo massicci.

Eppure si continuò a costruire, con quell’ostinazione che solo regge ad majorem Dei gloriam. Si dovette venire a più miti consigli, tuttavia, quando la torre centrale della facciata rovinò a terra. Era la notte fra il 12 ed il 13 febbraio del 1322: la città delle Anguille fu scossa come da un terremoto, e finalmente ci si convinse che il gigante non poteva reggere su piedi di argilla. La torre fu ricostruita più leggera, fu necessario però appoggiarci contro un potente, massiccio contrafforte: è ancora là, testimone men che elegante ma indispensabile di quando le cattedrali si pagavano in anguille.