La casa della matta a Rovio

/ 16.10.2017
di Oliver Scharpf

Sul Generoso, arroccata tra le torri di roccia calcarea sedimentaria, c’è una casa. Da lontano sembra una delle inaccessibili case dei pagani in Valle di Blenio. È la Casa della Marchesa, meglio nota a Rovio come la ca’ da la mata: la casa della matta. Si racconta che la marchesa Carla Nobili Vitelleschi, residente a Roma, per via di studi filosofico-religiosi alla fine degli anni trenta si sia rifugiata lassù, in località Baraghetto. Improbabile come storia visto che il posto è impervio pure per i camosci e lì uno studioso tedesco, di fulmini però, è morto cadendo giù dal dirupo. Eppure questa storia apparentemente da bar è confermata dall’avvocato ambientalista Graziano Papa – nel testo intitolato Dalla cima leggere e pensare il panorama e pubblicato nel libro La scoperta del Generoso (2011) – che scova, per quella cengia inospitale, un regolare contratto di superficie tra la marchesa e il patriziato di Rovio.

Abbastanza impossibile salire da Rovio per un non alpinista con le vertigini, un po’ da scansafatiche il trenino a cremagliera da Capolago, parto da Scudellate. In cima alla Valle di Muggio. Così, verso le nove di un mattino a metà ottobre, bevo un caffè fuori dall’Osteria Manciana. Se vi capita buttate un occhio anche dentro, c’è un negozietto fermo agli anni quaranta dove avvisto vasi di porcini essiccati, polenta del mulino di Bruzella, formaggini nascosti dietro la retina di un’antica dispensa, l’autocol-lante delle sigarette Gallant a forma di ragazza scosciata con gonnellina da tennista anni settanta che attraverso una nuvoletta fumettistica afferma: «infiammatevi!».

Chiaro già in partenza, vedendola in foto, che la casa della matta è una casamatta: un bunker. E la marchesa una spia o un prestanome. La mulattiera inizia alle spalle del cimitero ed entra nel bosco all’altezza della cappella di Sant’Antonio. Qui il sentiero per il Generoso sale subito di petto. In un’ora e mezza, tra faggete scoscese, il roccolo Merì, il violetto inatteso dei colchici d’autunno molto simili ai crocus ma mortali, il volo di una coppia di falchi pellegrini, l’alpe diroccata di Sella, l’anomalo paesino di Erbonne in lontananza, mazze di tamburo nell’erba, foglie di faggi solitari che incominciano ad arrossarsi, larici episodici, ceppi di confine, strappi ripidi da fare umili passo per passo, arrivo mezzo morto all’inizio dei paradisiaci pascoli sommitali.

Laggiù emerge delicato dalla bruma, l’alpe Génor. Forse, tra tutte le mie peregrinazioni in Ticino e dintorni, uno degli scorci più estatici che abbia mai visto. Rimarrei qui seduto per ore, ma c’è ancora una mezzoretta buona per la stazione del Generoso. Zampettando sull’erba giallo paglierino del crinale però è quasi sogno e la fatica svanisce. Incomincia l’aria-champagne. In cima, di mazze di tamburo ce n’è una marea e le raccolgo per cena. Impanate sono ottime e non ho mai capito perché tanti le lascino lì. Altro mistero è come mai il patriziato di Rovio si sia bevuto la storiella della marchesa, a meno che non sia stato invischiato nella copertura spionistica interbellica. Saluto le capre e tiro dritto verso la vetta dove ritrovo il genere umano chiacchierone.

Il panorama non è neanche da dire: dagli appennini emiliani alle alpi innevate al gran completo con una menzione speciale al Monte Rosa. Ed eccola là la casa della matta (1693 m), sulla cima del Baraghetto, in pieno sole. Una casamatta da manuale, in cemento con una finestra vuota. Mimetizzata tra i torrioni stratificati di calcare selcifero lombardo che ha duecento milioni di anni e il manto erboso, da qui si vede benissimo. Non la si noterebbe quasi neanche però, senza la copertura di una volta a botte in alluminio posata nel 2010 in elicottero. Dopo decenni di abbandono è stata infatti ristrutturata per mano dell’architetto Marco Conza e oggi è un deposito per il Club Alpino Svizzero e il Club Alpino Italiano.

Un bunker acrobatico favoleggiato dalla marchesa Nobili-Vitelleschi come «luogo di riposo e tranquillità necessario per gli studi di filosofia religiosa». Io solo a mettere fuori il naso da lì morirei di vertigini, ma sfido chiunque a trovare riposo e tranquillità sopra quello strapiombo. La cosa più pazzesca però di questo ipotetico arrocco dal mondo tra quelle rocce cubiste contenenti gusci di molluschi marini è che, secondo le meticolose ricerche di Graziano Papa, la marchesa sembra essere esistita veramente. Morta all’ospedale civico di Lugano, passa gli ultimi anni della sua vita in un due locali in via Carona venticinque a Paradiso. Parlava italiano con un accento e il suo grande amore mancato è stato Gandhi. È andata persino in India a trovarlo ma è stata respinta. La si vedeva spesso ai tavoli verdi del compianto casinò di Campione, oltre che al Münger di via Geretta. Una cameriera in pensione mi ha detto che andava matta per i vermicelles con meringhe e panna. Raccontava a volte di Ostenda, da bambina: la spiaggia sconfinata, il rosa dello zucchero filato, l’odore del mare calmo, cose così.