L’altana si avvista già, leggiadra come nient’altro a Mendrisio, all’inizio di via Vincenzo Vela. È il pezzo forte della casa ideata tutta per sé da Antonio Croci (1823-1884). Casa Croci è stata costruita nel 1873 e sul punto di essere demolita negli anni Settanta. Cronistoria stringata: iscritta nel 1973 come monumento storico, il Cantone l’acquista nel 1978, meticoloso restauro filologico tra il 1979 e il 1999 per mano di Fabio Reinhart e Bruno Reichlin, spazio espositivo a partire dal 2008.
All’altezza del cinema Mignon, dall’altra parte della strada, accanto al Municipio, eccola Casa Croci (357 m) conosciuta anche come Carlasc. Il colore ricorda un po’ il crème-caramel, le persiane sono carta da zucchero. Le sue «doti metamorfiche» come scrive l’architetto gaddiano Fabio Reinhart nel suo appassionato testo intitolato Un mondo – pubblicato nel catalogo della mostra Fabio Reinhart, architettura della coerenza (2007) e apparso con il titolo Il restauro di casa Croci sulla «Rivista Tecnica» nr. 7 del 1996 – stupiscono subito. Muta infatti secondo l’angolatura, ma soprattutto si muove e cambia assottigliandosi verso l’alto in un impareggiabile gioco di prestigio. La pianta triangolare smussata si trasforma, al terzo piano, in esagono. Non male ora la prospettiva di sbieco per ammirare questo fiabesco rompicapo architettonico. Due terrazzini per angolo, in due balzi, sottraggono progressivamente peso. Il tocco finale è la leggerezza in cima dell’altana circolare in ferro battuto, quasi come un gazebo volante, con tanto di parafulmine. La ciliegina sulla torta.
Odore di sigaretta; appena metto il piede sulla ghiaia del giardinetto con siepi geometriche di bosso e due palme giapponesi quantomeno centenarie che svettano su fino al tetto, un’ombra batte in ritirata. Dopo aver perso varie occasioni per visitare quest’insolita casa, come per esempio l’ultima mostra sui microgrammi di Robert Walser o quella prima, sugli aforismi nonsense di Dieter Roth mimetizzati in mezzo agli annunci pubblicitari di un giornale di Lucerna, entro. Metà pomeriggio grigio e malinconico di fine novembre. Sul vetro della porta di legno c’è un motivo a meandro. Un bel cotto a nido d’ape accoglie i primi passi e le volte a vela coccolano l’occhio.
«Le interessa la mostra o la casa?» mi chiede non subito la guardiana. La mostra attuale su Mezzana passa in secondo piano e mi sembra una scelta condivisa. Mi conduce su di sopra. Le scale in pietra a chiocciola sono punteggiate, a ogni scalino, da un’illuminazione a fibre ottiche. C’è qualcosa qui della solitudine cercata in un faro. Spalancate le persiane, un’occhiata dal terrazzino all’ultimo piano: oddìo, modine. Meglio concentrarsi sulle sorprese interne, come il modo imprevisto con cui si ripiega una porta, creando così un ripostiglio triangolare. Uno spazio che non t’accorgi se non lo guardi bene, segno dunque di eleganza. A quanto pare, degli architetti spagnoli, mi dice la guardiana, andavano matti per questo angolo nascosto. L’appassionato di dettagli si troverà a casa in questa torre non d’avorio progettata da Croci su misura per se stesso. Quasi avesse voluto riassumere, in piena libertà, tutto il suo mondo in un ultimo piccolo «misconosciuto capolavoro». Definizione sempre di Reinhart che quando la vede per la prima volta nel febbraio 1970 – un’ora dopo aver incontrato per caso, alla fermata del filo-bus in piazza Manzoni a Lugano, Giuseppe Martinola, presidente della commissione monumenti storici che gli chiede di buttarci un occhio per un parere – ne rimane folgorato. Mi viene in mente lo scultore trevigiano Arturo Martini: «l’animo di un artista deve esaurirsi in un’opera sola».
Non si può salire sull’altana, ma per vedere il Fox town tanto vale. Portentosa la porta a molla per il bagno. Rientranze inattese, vari armadi a muro, alcune finestruole labirintiche, sono tracce della maestrìa di questo architetto scapolo nato qui a Mendrisio di cui poco si sa per certo visto che il suo archivio è stato gettato nel 1969. Di sicuro è l’autore della neopalladiana Villa Argentina in Largo Bernasconi, nome tra l’altro dei committenti conosciuti a Buenos Aires. Nonché di una chiesa a Lax e un paio di moschee a Smirne, dove ha vissuto parecchi anni dopo il diploma a Brera. S’ipotizza poi che per il favoleggiato castello di Trevano – vergognosamente fatto saltare in aria nel 1961 dal Gran Consiglio ticinese – come pure per l’altro castello, a Nizza, voluto sempre dal barone russo Paul von Derwies, ci sia il suo zampino.
Mi meraviglia una nevera, tipica dei declivi del Generoso, in casa. Getto uno sguardo nella nevera casalinga che arriva fino in cantina e via, scendiamo nel seminterrato a volte. Spazi curati anche qui, e giù ancora, in cantina. Cantina con i fiocchi, peccato non tenerci vino o cos’altro. Fuori torno a rifugiare lo sguardo su verso l’altana, sempre lì come la cesta di una mongolfiera. Immaginaria purtroppo, sennò via in volo, lontano, su un’isola tropicale.