La Blüemlihalle di Zurigo

/ 16.03.2020
di Oliver Scharpf

In Nordafrica, a fine marzo 1931, Augusto Giacometti (1877-1947) rimane colpito dall’usanza, contro il malocchio e per allontanare il male dalle case, di posizionare sopra le porte degli artigiani, la mano di Fatima. «Forse ogni armonia di colori, per semplice che sia, è simile a questo genere di mano che scaccia il malanno da noi»: conclude così, il pittore nato a Stampa e vissuto dal 1915 via a Zurigo, le sue riflessioni sul colore andate in onda la sera del quattordici novembre 1933 allo studio Fluntern intitolate Die Farbe und ich. L’armonia esplosiva di colori affrescata sotto le volte a crociera dell’atrio dell’Amtshaus I, in ogni caso, le tre volte che l’ho perlustrata con gli occhi, male non fa. È come essere su un altro pianeta, nonostante sia dentro la sede di una centrale di polizia.

Dalla stazione centrale, a passo consapevole, sono sette minuti. Giacometti-Halle si legge sulla targhetta fuori al tre del Bahnhofquai: aperta tutti i giorni, dalle nove alle undici e dalle due alle quattro. «Documenti, dieci minuti di tempo» è l’accoglienza consueta della simpaticona dietro un vetro antiproiettile allo sportello. L’energia negativa dell’ottusa usciera e miei cattivi pensieri conseguenti, passano all’istante entrando nella Blüemlihalle di Zurigo (408) alle undici meno un quarto di un mattino grigio ai primi di marzo. Al primo impatto, naso all’insù, è l’esplosione floreale di rosso che prevale e mi ricorda sempre molto l’effetto che fanno i flamboyants sul ciglio delle strade nelle Antille. Originario del Madagascar, il Delonix regia o Albero del Fuoco, appare anche al Cairo in primavera e non dimenticherò mai quello in piazza Tahrir mesi prima del gran casino. La fioritura a ripetizione è data dai contorni delle corolle – moltiplicate identiche a tutto spiano grazie all’uso di mascherine in cartone – sotto le volte settecentesche di questa ex cantina di un orfanotrofio disegnato da Gaetano Matteo Pisoni di Ascona e trasformata in atrio per uffici amministrativi nel 1914 da Gustav Gull, architetto zurighese autore inoltre dell’osservatorio astronomico Urania a pochi passi da qui.

Le nuvole di fiori rosso fiammante che assomigliano anche a ruote di ingranaggi o stelle, sono attenuate dai lampi giallo oro delle nervature, stelline arancio, quadrifogli rosei. Rari tocchi esigui di blu e verde, passeggiando tra i pilastri sempre naso all’insù, riserva poi parsimonioso, questo magistrale soffitto pimpante dipinto in gran parte – sopra un’impalcatura da luglio 1923 a marzo 1924 – dai tre collaboratori di Augusto Giacometti. Jakob Gubler (1891-1963), Giuseppe Scartezzini (1895-1967), e Franz Beda Riklin (1878-1938): psichiatra che ha lavorato con Jung a degli studi sul pensiero associativo e autore di Wunscherfüllung und Symbolik im Märchen (1908). Esaudisco il desiderio dei miei occhi, rifugiandomi come in una riserva fatata per l’anima, senza guardare nessun orologio stavolta, nelle regioni dove i colori si mescolano armoniosi, sfumano uno nell’altro, conducono vita vagabonda. Cerco il flou, le nebulose, l’accostamento inatteso, lo sprazzo astratto che mi distragga dalla pesantezza del mondo.

Precursore dell’astrattismo, atelier al cinque della Rämistrasse in faccia alla Kronenhalle e dietro l’angolo dell’Odeon che frequentava spesso, nessun rapporto con gli altri Giacometti artisti dei quali era lontano cugino, Giacumin da la Gassa – come lo chiamava un suo conoscente dadaista quando lo vedeva apparire con il suo cappello di pelliccia scura sulla strada – come un mago del colore ha ideato questo altro pianeta. L’idea di base l’ho scovata in Die Farbe und ich (1934), il testo radiofonico citato prima e pubblicato da Oprecht & Helbing: Emil Oprecht (1895-1952) tra l’altro, va forse detto, aveva una libreria proprio al cinque di Rämistrasse ed è lo stesso editore della prima edizione di Fontamara (1933) di Ignazio Silone, grafica di Max Bill. Libretto dove le sue teorie su colore e natura, a volte un po’ semplicistiche, spiegano perché i pappagalli dello zoo di Marsiglia, ritratti in alcuni pastelli perduti, sono blu e gialli. La foresta di sfondo dove vivono è verde, dunque il blu e il giallo non sono casuali ma hanno un rapporto con il verde visto che ne sono i componenti. Così anche il paesaggio zurighese grigio in inverno è dato dal nero delle folaghe e dal bianco dei gabbiani.

«Immaginando che ci troviamo su un altro pianeta e che in inverno l’atmosfera sia arancio luminosa. In questo caso, i gabbiani sarebbero di un giallo eclatante e le folaghe rosse» annota Augusto Giacometti. Due dei murales arancio luminoso – tutti opera sua firmata e datata, sotto un verbasco, 1926 – raffigurano un mago in compagnia di una luna piena e a fianco di una mezzaluna giovane gigante, un astronomo che scruta il binocolo. Guardo ancora in alto le corolle che d’un tratto mi ricordano il percorso dei polpastrelli di mani blu cobalto impresse sulle mura di un paesino berbero mezzo disabitato, una sera. «Contro il malocchio» ricordo ora che mi disse il trafficante di kif che mi aveva preso su in autostop. Di colpo emerge un altro posto di sicuro imparentato con questo, dove non sono mai stato ma conosco per via della copertina di un libro. In Patagonia c’è una grotta con una straordinaria pittura rupestre costellata di decine d’impronte colorate di mani.