Martin Bodmer (1899-1971), accanito bibliofilo zurighese noto per ventidue papiri che prendono il suo nome, ogni mattina per trent’anni, tra le dieci e le dieci e mezza, telefona alla sua segretaria, Odile Bongard. Membro del Comitato Internazionale della Croce Rossa dal 1939, va a vivere proprio in faccia alla sua sede, dalla parte opposta del Lemano, sulle docili alture di Cologny. Erede diciassettenne di una grande fortuna ottenuta grazie all’in-dustria paterna di seta grezza, rincorre il sogno della biblioteca universale. «Weltliteratur», parola di Goethe, 1827. Villa Haccius a Cologny diventa il posto per stipare tutta la Weltliteratur possibile: autunno 1951, nasce così, in origine aperta solo a ferventi ricercatori, la Bibliotheca Bodmeriana.
Bus linea A da Rive: un quarto d’ora neanche e un primo pomeriggio polare di fine febbraio scendo a Cologny. Da queste parti, un paio di anni fa, avevo dato notizia del prato Byron e per via di una mostra su Frankenstein, accennato alla Fondazione Martin Bodmer, creata nel febbraio 1971 per portare avanti la Bodmeriana. Basta attraversare la strada e sono a pochi passi da vedere dal vivo la scrittura di Borges. Cinque parallelepipedi di vetro tra due porzioni di villa neoclassica, segnalano la presenza ipogea del museo ideato dal solito Botta. Alla cassa ritrovo il Notari, ex supplente di italiano gli ultimi mesi di liceo: la Hewitt si era rotta un ginocchio sciando in Engadina.
Porta a vetri, buio in sala, luce dalle vetrine quando ci si avvicina. Un librone, aperto e illuminato, fluttua nel nero teatrale. È la prima edizione tedesca dei Viaggi di Pietro della Valle (1674): scopritore a Persepoli della scrittura cuneiforme; la prima forma conosciuta di scrittura. Incisa nell’argilla migliaia di anni fa, come mostra un reperto sumero lì a fianco. Gilgamesh, Libro dei morti di Hor, Odissea quattrocentesca in greco, assaggio di copto sahidico del Vangelo Secondo Matteo salvato in extremis da un incendio. Qui il bibliomane spirituale sprofonda in una spirale, il capogiro passa solo se accetta di passeggiare su un altro pianeta. Straordinario un lezionario dell’ottavo secolo vergato su pergamena in siriaco: lingua danzante, tipo balletto contemporaneo. Ecco alcuni dei famosi papiri Bodmer scoperti in Egitto nel 1952. Manca il famoso papiro 66: il più antico manoscritto del Nuovo Testamento.
Immancabile invece la Bibbia di Gutenberg, una vetrina tutta per sé. Primo libro stampato a caratteri mobili, verso il 1452 a Mainz, quarantotto esemplari esistenti. Trenta milioni di dollari è solo una cifra indicativa, l’ultimo risultato d’asta è fermo al 1978. Riluccica la foglia d’oro utilizzata per miniare la capolettera E. E dal primo incunabolo del mondo si passa a un’Ave Maria messicana in pittogrammi nahuatl della fine del Cinquecento, accanto la prima edizione di una ballata sboccata di Villon. Si è poi rapiti da un antico Corano e dal cambio di passo verticale di un manoscritto giapponese del 1496. Due pagine del Kokinshū, millecentoundici poesie ordinate in venti libri a tema, come le stagioni, gli amori, le separazioni. Al piano di sotto pregusto El Sur di Borges e intanto mi sorprendo della calligrafia minuta e accuratissima di Conan Doyle: The adventure of the Abbey Grange (1904). In giro incontro la cartina con su l’isola di Lilliput, quattro Shakespeare, un tulipano variegato acquarellato nel 1717 ad Amsterdam. Non c’è verso di trovare le otto pagine manoscritte di El Sur, nessuna traccia neppure dell’inchiostro delle note di Mozart. Tra l’altro, va forse detto, il fratello maggiore di Bodmer è stato uno sfrenato collezionista beethoveniano.
Chiedo di Borges al Luca Notari e mi dice che si trova in cassaforte e che «è esposta solo la punta dell’iceberg». Mi chiede se ho voglia di dargli una mano a riportare dei libri dalla sala conferenze ai depositi e vedere così il retroscena della biblioteca bodmeriana (429 m). Toccare con mano i libri e andare dietro le quinte della Bodmeriana? Non ci penso due volte, affare fatto. Sbrigato il compito con l’aiuto di un carrello e intravisto degli scarabocchi portentosi di Michaux, il Notari ora mi mostra – operando con una manovella che apre il sipario – la particella di tutto un mondo. Libri che vivono qui una perenne primavera nascosta, riposti a una temperatura costante di diciotto gradi e mezzo. La combinazione per la stanza dove c’è Borges, il papiro 66 eccetera, la conoscono solo il direttore e il vicedirettore. Ci andiamo lo stesso, così, per sport. Arrivarci è un labirinto, le porte poi si devono chiudere subito «sennò scatta l’allarme». Tra le nuove acquisizioni, sui ripiani di una libreria di metallo, ecco una magnifica prima edizione del El jardin de senderos que se bifurcan (1941): color carta da zucchero, un po’ sbrindellata sul dorso. Lo prendo delicatamente in mano, apro e sul frontespizio, insperata ma creduta possibile con tutto il cuore, la sua calligrafia timida. Una dedica in sette parole, con tanto di numero civico a tre cifre di un’avenida a Buenos Aires.