Una banana appesa a una parete con il nastro adesivo: questo il capolavoro prodotto da Maurizio Cattelan, l’artista concettuale padovano, per la Fiera d’arte contemporanea Basel Art Miami. Di fronte a quell’opera d’arte, già venduta per 120 mila euro, un collega di Cattelan, David Datuna, si fa venire l’acquolina in bocca e cosa fa? Stacca il frutto dal muro, lo sbuccia e se lo mangia: «Amo l’arte e adoro letteralmente questa installazione, deliziosa…», pare abbia detto a bocca piena.
Quel capitale andato in fumo (o peggio) ha fatto discutere la scorsa settimana su temi cruciali: la provocazione dell’arte contemporanea, la sua irresistibile ironia postmoderna, la sua valenza effimera, il suo (non effimero) valore di mercato (un’altra banana gemella esposta dallo stesso Cattelan era già stata acquistata per la stessa cifra da una coppia francese di amanti del post-dada). Arte o paccottiglia? Capolavoro o bluff? Performance o semplice prodotto ortofrutticolo?
Nel dubbio, volano i seguenti voti d’aria: 2– al genio di Cattelan, –120 mila al gusto degli estimatori-compratori, 5+ all’ingordigia di Datuna, che ha pensato bene di pubblicare su Instagram la sua performance intitolandola Hungry Artist. Se tanto mi dà tanto, non va del tutto escluso che tra qualche tempo, in un museo d’arte contemporanea di Dubai o di Tokyo o di New Orleans o in una galleria molto trendy di Milano, compaia una scatoletta firmata dallo stesso Datuna e intitolata Fu banana d’artista (d’après Piero Manzoni), contenente la traccia fisica dell’avvenuta digestione ed espulsione del capolavoro cattelaniano. Il peggio è che i grandi artisti fanno scuola e corriamo il serio pericolo di dover ammirare, negli anni a venire, un kaki spiaccicato sulla parete del Guggenheim o una castagna inchiodata in un angolo della Tate Modern di Londra.
Un artista affamato sarà sempre benvenuto: la sua è comunque una benefica azione di ecologia culturale. Peccato che non sia possibile mangiare certi libri. Troppo indigesti. Il pensiero vola, come certi voti d’aria, all’ultimo volume di Bruno Vespa (3), sicuramente più indigesto della banana di Cattelan e intitolato con risibile sicumera: Perché l’Italia diventò fascista (e perché il fascismo non può tornare). Che non possa ritornare il fascismo di Mussolini è fin troppo ovvio, ma che possa ripresentarsi un altro fascismo, aggiornato ai tempi e sotto nuove spoglie, nessuno può escluderlo, nonostante il parere del grande storico visionario Vespa.
Una delle giornate più luminose degli ultimi anni, di quelle rarissime che danno speranza molto più delle banane d’arte, è stata la giornata di martedì scorso. Quel giorno, seicento sindaci italiani hanno sfilato per le strade di Milano con Liliana Segre. Per dire basta. «Siamo qui per parlare di amore e lasciamo l’odio agli anonimi della tastiera, guardiamoci da amici anche se ci incontriamo per un attimo», ha detto la senatrice a vita (6) da un palco di Piazza della Scala. È stata una giornata di solidarietà verso una donna che è sopravvissuta alla deportazione ad Auschwitz e che oggi, a 89 anni, deve vivere sotto scorta perché qualcuno la minaccia fisicamente e la insulta online. I messaggi di odio che riceve sono circa duecento al giorno e il tono abituale assomiglia a questo: «Mi chiedo perché non sia crepata insieme a tutti i suoi parenti» (s.v.). Il fascismo non può tornare?
Il giorno dopo, mercoledì, «la Repubblica» pubblicava una breve intervista di Brunella Giovara a un’altra anziana sopravvissuta di Auschwitz, la scrittrice Edith Bruck. Un’intervista sfiduciata, quasi disperata che sembra velare le certezze di Vespa. «Chi porterà avanti le nostre voci?» è la domanda. Quale memoria resterà quando non ci saranno più i testimoni? Ecco la risposta: «Sarà strada libera ai negazionisti. Primo Levi è morto scioccato e scandalizzato dal negazionismo degli anni Ottanta. Ricordo una sua telefonata, mi disse: «Ti rendi conto, stanno negando il lager già adesso, con noi vivi. Figuriamoci dopo». I giorni della Memoria, le iniziative… sono certamente importanti, ma con noi morirà quasi tutto (…). Il testimone diretto è un’altra cosa. Noi c’eravamo, io c’ero, io ho visto dei soldati giocare a football con la testa di un bambino. La gente però rigetta questi racconti…».
Voto d’aria: 6+ alla crudezza e al pessimismo che potrebbero aiutare a tenere altissima la guardia (e a dubitare delle certezze di Vespa). «Il mare dell’indifferenza si chiuderà sopra di noi», prevede Liliana Segre. In effetti. Da quando gli slogan razzisti, le profanazioni dei cimiteri ebraici, le nostalgie mussoliniane e hitleriane sono diventati pratiche diffuse, normali e quotidiane in Rete, nelle pubbliche piazze, in televisione, nelle curve degli stadi e persino nei parlamenti, tutto sembra più reale e angosciante. Gli artisti che appendono (o mangiano) banane non se ne sono accorti?