Khashoggi, una morte impunita

/ 02.09.2019
di Paola Peduzzi

«Non voglio piangere», ha detto Hatice Cengiz alla giornalista del «Financial Times» che l’ha incontrata per pranzo a Londra e che non ha potuto non notare i suoi piccoli occhi tristi. Hatice Cengiz era la fidanzata di Jamal Khashoggi, il giornalista saudita ucciso nel consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul nell’ottobre dello scorso anno: non fosse stato per lei, probabilmente non avremmo mai saputo che cosa è successo a Khashoggi, ci avrebbero detto che era scomparso, e presto ci saremmo dimenticati di lui. I sauditi che avevano pianificato l’omicidio e lo smembramento del cadavere del giornalista – come hanno stabilito sia un report delle Nazioni Unite sia uno della Cia americana – non avevano calcolato la possibilità che Hatice potesse, per amore e per preoccupazione, accompagnare il suo fidanzato. Lei era andata al consolato con Khashoggi, lo aveva aspettato fuori, non vedendolo più uscire, dopo molte ore ha dato l’allarme.

Un uomo è entrato nel consolato e non è più uscito: diteci che ne è stato di lui. Per giorni la propaganda saudita ha cercato di depistare le ricostruzioni – qualcuno disse che il giornalista, che si era recato al consolato per ritirare i documenti che gli avrebbero permesso di sposare Hatice, aveva cambiato idea sul matrimonio, e si era dileguato apposta per non dover dare spiegazioni alla fidanzata – ma dopo due settimane di video contraffatti e di ricostruzioni improbabili ha dovuto ammettere: Khashoggi è morto. 

Hatice ricorda quella notte, il telefono continuava a vibrare, lei aveva quasi paura a guardarlo, voleva credere che il suo fidanzato fosse ancora vivo. Invece Khashoggi era morto quasi subito, pochi minuti dopo essere entrato nel consolato: la squadra dei suoi sicari era arrivata poche ore prima con tutto l’occorrente, comprese le seghe per fare a pezzi il corpo e le cuffiette per ascoltare la musica, ché il rumore delle ossa spezzate può essere fastidioso. I sauditi avevano inizialmente detto che c’era stata una colluttazione, la morte di Khashoggi era stata un incidente, ma i turchi avevano la registrazione audio (e forse video) dell’incontro e così hanno iniziato a far trapelare alcuni dettagli: un’arma di ricatto potentissima che non aveva nulla a che fare con il giornalista e la sua uccisione, ma molto con la lotta di potere nella regione. 

Il mandante dell’omicidio del giornalista è il principe «riformatore» di Riad, quel Mohammed bin Salman che parla le lingue, apre i cinema e gli stadi alle donne e le fa addirittura guidare, e per questo viene considerato un innovatore, uno che ha capito che persino il regime saudita si deve modernizzare. Sia l’Onu sia l’intelligence americana non hanno dubbi sul suo coinvolgimento, e dicono che gli undici arrestati per l’omicidio da parte delle autorità saudite sono soltanto un contentino – e un modo per Bin Salman di togliere di mezzo eventuali oppositori o rivali. Nonostante le prove, al principe saudita non è accaduto nulla. C’è stato un iniziale boicottaggio di un evento di businessmen in Arabia Saudita cui Bin Salman teneva molto: un dispetto, più che una politica. Ma poco altro: lo stesso presidente americano, Donald Trump, ha ignorato quel che la sua intelligence gli ha riferito e, come ha fatto con l’ingerenza della Russia nelle elezioni americane, si è fidato del suo istinto – «forse è stato lui, forse no, non lo so», è il massimo che Trump ha rivelato dei suoi sospetti.

Come è andata finire lo sappiamo: all’ultimo G20 a Osaka, in Giappone, Bin Salman è sorridente nella foto di gruppo, e molti leader internazionali hanno organizzato bilaterali con lui, con foto ricordo sorridente. Esattamente come accade con la Russia – che oltre alle ingerenze nelle elezioni americane ed europee, è scampata anche alle conseguenze dell’abbattimento di un aereo di linea che sorvolava l’Ucraina «ribelle» e a quelle del tentativo di uccisione con gas nervino di una ex spia russa su territorio britannico – la questione viene liquidata con disprezzo: che cosa volevate che si facesse, una guerra? Nessuno ha mai invocato una guerra naturalmente, ma l’impunità di fatti gravi ha effetti molto più ampi del sollievo di Bin Salman e di Vladimir Putin o del mantenimento dello status quo: molti paesi inizieranno a scommettere sulla passività della comunità internazionale (guardate il dittatore della Siria, Bashar al-Assad: lo sta già facendo).

Considerando il livello di brutalità già raggiunto, non si può certo contare sul fatto che questa scommessa sia al ribasso. «Se il mondo non reagisce» di fronte all’omicidio di Jamal Khashoggi, «davanti a cosa reagirà», chiede Hatice. «Se non c’è punizione per un crimine così efferato, possiamo sentirci al sicuro?», aggiunge, e anche se non voleva, Hatice piange, ricordandoci che oltre agli equilibri di potere, alle relazioni internazionali, al realismo, i governi anche a questo dovrebbero badare: a proteggerci.