Josè, cacciatore di foche e di guanachi

/ 21.02.2022
di Melania Mazzucco

Il 21 agosto del 1892, a Genova, all’Esposizione delle missioni cattoliche americane, nel giardino adiacente la galleria della mostra si inaugurò il villaggio fuegino: un agglomerato di capanne di rami intrecciati e foderate di pelli, con tanto di lago artificiale dove gli indigeni – fino a quel momento alloggiati all’ospizio salesiano di Sampierdarena – potevano dimostrare la loro abilità come pescatori. I missionari di don Bosco operavano dal 1879 nella remota Patagonia: inizialmente per convertire gli indigeni e salvare la loro anima. Per testimoniare l’opera delle missioni, i padri salesiani avevano portato con sé a Genova esponenti di varie tribù, fra cui gli Ona e gli Alakaluf. Il 19 settembre uno scrittore (anonimo) della «Rivista» ne intervistò quattro. Allo scrittore era stato detto che gli Alakaluf sono «mansi» – mansueti, ma poco socievoli. Stanno per conto loro, non parlano volentieri. Quando erano ancora nomadi, gli Alakaluf, tra cui Daniel, si muovevano in canoa: la moglie di Daniel, affascinata dall’idea di salire su una grande nave, avrebbe dovuto accompagnarlo nel viaggio transoceanico, ma non era sopravvissuta al clima uruguagio, ed era morta a Montevideo. Daniel non l’aveva pianta né mai più nominata. È possibile che per gli Alakaluf – come per molti altri popoli – sia tabù nominare i morti. Ma lo scrittore non lo sapeva, e l’ostinato silenzio di Daniel sulla consorte gli parve segno di durezza e crudeltà. Del resto prima di convertirsi al cattolicesimo i patagoni erano «cannibali». E da «cannibale» aveva conosciuto i bianchi il quarto intervistato, Josè. Era un Ona – indios cacciatori di foche e di guanachi noti come formidabili arcieri. Quel giorno d’agosto aveva appena nove anni. Una cicatrice gli solcava la fronte: era dovuta al morso di un cane.

Tuttavia non il cane ma gli uomini gli avevano inflitto la ferita più profonda. Tre anni prima, a Parigi, aveva vissuto sei mesi in gabbia, come una bestia feroce. Insieme ad altri nove sfortunati Ona era stato rapito sulla Terra del Fuoco, l’isola maggiore dello Stretto di Magellano, imbarcato su una nave e scaricato in Francia per partecipare all’Esposizione Universale del 1889. Quella della Tour Eiffel, quella del trionfo del progresso.

L’Expo inaugurò il 5 maggio. Le nazioni del mondo celebravano se stesse in padiglioni di accattivante architettura, a volte ispirate alle tradizioni locali (templi egizi o maya): l’Argentina si presentava invece come nazione moderna e nuovissima. Ma il pubblico si accalcava intorno al palazzo coloniale, sull’Esplanade des Invalides. Si incolonnava in lunghe file, e attendeva ore e ore per accedere al «villaggio negro» dove, protetti da fragili recinti, disorientati africani importati dalle colonie si esibivano in fasulle rappresentazioni della loro vita quotidiana. Salvo qualche indicazione generica (senegalese, kanako) ai visitatori non veniva fornita alcuna guida o spiegazione circa la loro provenienza o i loro usi e costumi. Ogni giorno, fino alla chiusura, il 31 ottobre, i malcapitati ciondolarono tra le false case dei loro falsi villaggi in quelli che erano in effetti degli zoo umani. Fra le principali attrazioni esotiche figuravano i selvaggi «cannibali», detti anche «neri rossi» per via del sangue che li copriva. Fra gli antropofagi, i dieci patagoni con gli occhi piccoli e obliqui e le facce piatte. Il più giovane di essi era proprio Josè. I bianchi che si pigiavano davanti ai recinti ne ammiravano e disprezzavano la diversità irriducibile. Alla fine dell’Ottocento l’Altro era concepibile solo come selvaggio.

Quando l’Expo chiuse i battenti, i patagoni furono rispediti alla fine del mondo. Josè fu raccolto dalla missione di padre Beauvoir, dove imparò lo spagnolo e ricevette un’educazione. Potrebbe essere suo uno dei quaderni esposti nel museo di Punta Arenas e descritto da Chatwin, sul quale un giovane indio aveva ricopiato il versetto: «il Salvatore era qui e io non l’ho riconosciuto». Lo scrittore della «Rivista» registrò senza commenti l’esperienza parigina del bimbo fuegino esposto come «bestia feroce».

Non sappiamo cosa accadde a Josè quando chiuse l’Esposizione di Genova. Probabilmente il piccolo ospite rientrò alla missione coi suoi compagni e col suo buon padre Beauvoir, e vi morì, come tutti gli altri: nel giro di pochi anni gli indios della Patagonia si estinsero. Ammansito, domato, l’Altro era stato annientato.