In pochi giorni nella politica italiana è cambiata quasi ogni cosa.
Il mito dell’invincibilità di Matteo Salvini è crollato. Quello che si è autodefinito il Capitano ha sbagliato tutto, tempi e modi, a conferma che non padroneggia tecnica e tattica parlamentare; in Parlamento del resto non è quasi mai stato. Ma guai a darlo per finito: il suo consenso nel Paese è lì, intatto. In piena era populista essere sprovveduti a Palazzo può essere un vantaggio nelle piazze. Anche se il fatto stesso che il ministro dell’Interno tuttora in carica minacci di mobilitare le folle, compresi magari i suoi amati ultrà, la dice lunga sulla confusione mentale del personaggio.
Giuseppe Conte, divenuto premier quasi per caso, se non altro è uscito di scena con dignità. Martedì scorso nell’aula di Palazzo Madama ha usato un linguaggio meno involuto del solito per ergersi ad avversario di Salvini. Ora potrebbe diventare commissario europeo alla Concorrenza. In prospettiva, più che andare a perdere le elezioni con i 5 Stelle, punterà a fare il leader di un nuovo movimento, magari innervato dai cattolici antileghisti.
Ma il vero demiurgo della crisi è stato Matteo Renzi. Fino al giorno prima era sulla linea «senza di me», decisamente contraria all’accordo con i grillini. Ha rovesciato il fronte in pochi giorni. E ha spiazzato tutti. A cominciare dal segretario Nicola Zingaretti.
Non c’è niente da fare. Renzi tra i protagonisti della politica italiana è il più spregiudicato, il più sfacciato, il più incostante, il più aggressivo. Nonostante questo, o forse proprio per questo, è palesemente l’unico leader di cui disponga il centrosinistra; tranne i padri fondatori, che però hanno dovuto fare un passo indietro, anche a causa sua. Ora lavorerà per riprendersi il partito. Ma se dovesse cedere alla tentazione di farsene uno suo, commetterebbe l’ennesimo errore.
L’altro protagonista è stato Beppe Grillo. Nella sua apparente follia, l’ideatore è tornato il leader dei 5 Stelle. E ha imposto un cambio di rotta. Sa che andare al voto oggi sarebbe un dramma per il movimento. Sa anche di non potere allearsi con l’arci-nemico Renzi, trattando con lui in prima persona. Ma una stagione incentrata su lavoro, diritti, ambiente, insomma i suoi temi, significherebbe per lui tornare centrale.
Nicola Zingaretti si è mosso con cautela. Ha un po’ patito Renzi. Ha mandato avanti l’antico mentore Goffredo Bettini, a dire che se governo s’ha da fare che sia governo vero. Lui preferirebbe andare al voto. Ma difficilmente potrebbe sopravvivere a una sconfitta netta contro Salvini, magari seguita dalla perdita dell’Emilia-Romagna. Si tratta di capire se riuscirà a intendersi con Luigi Di Maio, altro protagonista in difficoltà, che non riesce a scrollarsi di dosso l’immagine di leaderino svelto, accorto, furbo, ma incapace di guardare oltre l’orizzonte e l’interesse personale. Altrimenti avrebbe dato via libera al rivale interno Fico, che nella partita con il Pd in teoria aveva in mano carte migliori delle sue.
Il migliore in campo si rivela a ogni occasione Sergio Mattarella. Che in un clima simile il presidente della Repubblica riesca a godere del consenso popolare e del rispetto di un po’ tutti i partiti, è quasi un miracolo. Destinato a non durare: perché comunque finisca la crisi, il capo dello Stato scontenterà qualcuno; il quale agiterà le piazze e il web contro di lui. A maggior ragione se quel qualcuno fosse Matteo Salvini.
Anche se la minaccia del leader leghista – «non si può fare un governo contro il popolo» – non ha basi né politiche né giuridiche.
In Italia si è parlato di Seconda Repubblica – e ora di Terza – senza cambiare la Costituzione della prima. Anche per questo il Paese si è ritrovato governi guidati da leader – Dini, Monti, Renzi, Conte – che non erano neppure eletti in Parlamento. Però i tentativi di riforma, magari maldestri, per semplificare il sistema e legare in modo più stretto il voto popolare e la definizione di una maggioranza sono stati clamorosamente bocciati nei referendum del 2006 e del 2016. Nel primo caso si votò soprattutto contro Berlusconi, nel secondo soprattutto contro Renzi. Ma si votò. E un po’ si è perso il diritto di lamentarsi. Se poi si torna al proporzionale, i partiti si sentiranno ancora più liberi di fare quello che vogliono.
Perché – se volete una previsione, cari lettori – alla fine il governo si farà. E le Camere, dopo aver tagliato il numero dei parlamentari, riformeranno la legge elettorale in chiave proporzionale. Proprio per tagliare le unghie a Salvini.