Islam

/ 21.03.2022
di Melania Mazzucco

Un borgo dell’Italia centrale, fra i boschi inselvatichiti dell’Appennino. Mura sgretolate, chiese medievali, palazzi già vescovili o nobiliari, qualche torre, un convento, case di pietra. Il tempo è fermo come l’orologio sul campanile. Finché una sera non arriva lo straniero – magrolino, moro, taciturno – e si insedia, furtivo, in una casa all’ingresso del paese, di fronte all’unico bar. Appartiene agli eredi dei gestori del negozio di scarpe, già chiuso prima della loro morte. Gente di città, ormai vivono sul mare, non tornano mai, nemmeno a mettere fiori sulla tomba. Lo straniero però ha le chiavi della casa, deve averla presa in affitto. Apre le finestre, arieggia le stanze, sbatte un tappeto. Accende anche il camino, perché dopo vent’anni il fumo erutta dal comignolo.

Lavora a una trentina di chilometri di distanza, nell’unica fabbrica della valle. Prende la corriera la mattina presto, torna che è già buio. Non fa acquisti nell’unico negozio rimasto in paese – che spaccia pane, carne, gastronomia e cartoline per i turisti di ferragosto: le buste della spesa recano il logo del supermercato sulla statale. Non va nemmeno in chiesa, o in Comune per questioni burocratiche, non ha occasione di conoscere gli indigeni. Si sparge la voce che sia pakistano. E che si chiami Islam. Nome allarmante, in quanto identico a quello della sua religione, che i vecchi conoscono solo dal telegiornale, e sempre in relazione a esplosioni e sgozzamenti.

L’anno dopo, a marzo, dalla corriera scende una donna minuta, involta in un pastrano scuro, troppo leggero per il clima dell’Appennino. Ha un copricapo sui capelli e il volto velato. Dietro di lei, tre ragazzini eccitati trascinano le valigie. Si fanno strada nella viuzza in salita, scivolando nelle pozze di nevischio. Ha portato la famiglia! Si sbalordiscono tutti. Questo fatto non piace. Dove andremo a finire? Le case qui sono tutte vuote. Se si sparge la voce, ne verranno a decine.

Odori pungenti di spezie ignote e aglio bruciato esalano ora dal comignolo, infastidiscono l’olfatto degli abitanti. Paga l’affitto, scrolla le spalle il sindaco, ha un lavoro, è una brava persona, lasciatelo in pace. I tre maschietti – fra i cinque e i dodici anni – sono vivaci come grani di pepe. Corrono, sguazzano nel torrente, giocano sugli scivoli del parco, frequentato solo d’estate dai figli dei villeggianti. Salutano sempre, sorridono, osano qualche parola in italiano. Sono scuri, educati, carucci.

La scuola elementare ha una sola pluriclasse, con otto allievi. Il più grande però a settembre andrà alle medie a fondovalle. La maestra conosce le norme del Ministero: nonostante le deroghe per le scuole di montagna, questa verrà chiusa perché non raggiunge più il numero minimo. Lei verrà trasferita nel capoluogo. Niente negozi, niente parroco (vive giù e sale solo per la messa), ora pure niente scuola: diventerà un paese fantasma.

Il pakistano viene rivalutato. Lo salutano tutti adesso; lo invitano (invano) a giocare a briscola, o a scopa, che è più facile, a bersi un goccio al bar. Nessuno si lamenta più del chiasso né della puzza. Le donne cercano di avvicinare la moglie, che però non esce mai: la maestra le manda una torta salata, la barista un corredo di guanti di lana fatti a maglia (qua l’inverno picchia duro). Alla fine il marito della maestra, disoccupato che anni prima gestiva la seggiovia alla pista di sci, chiusa pure quella, abborda il pakistano: deve iscrivere i ragazzini a scuola.

Gli dispiace, risponde Islam, pacato. Lui ci sta bene qui. È tutto bello, e l’aria buona. Ci resterebbe volentieri. Ma sono troppo soli. Non c’è la loro gente. Fai venire i parenti, azzarda il marito della maestra che ha saputo che alla fabbrica lavorano due fratelli di Islam, e pure un cugino. Ci sono tante case vuote, l’affitto costa poco. Vi sistemate tutti. Grazie, dice Islam. Ma ci spostiamo dove ci sono i nostri.

A settembre i ragazzini caricano le valigie sulla corriera. Sul piazzale del parcheggio torna il silenzio. Adesso il pomeriggio si sentono solo i corvi. La scuola viene trasformata in magazzino dell’ente parco. In paese restano in cinquanta – i seicento residenti sono solo nomi sui registri, buoni per tenere in vita il Comune e i suoi impiegati, anime di carta. Ogni tanto, quando giocano a scopa, i vecchi al bar guardano la casa del pakistano. Il cartello VENDESI scolorisce sotto la pioggia, ma nessuno la comprerà. Il paese è morto, dice la maestra, e si mette a piangere.