«Io come madre» e la politica

/ 07.09.2020
di Luciana Caglio

Discoteche aperte o chiuse? Effetto pandemia, l’interrogativo che, in tempi normali, concerneva casi isolati di bullismo o rumori notturni, adesso è diventato un test impegnativo, persino imbarazzante. Mette, infatti, alle prese con una scelta d’ordine non soltanto sanitario, ma economico e soprattutto morale, psicologico, generazionale. Optando per la chiusura, si rischia insomma di passare per retrogradi, insensibili alle esigenze dei giovani. Mentre, schierandosi per l’apertura, si dimostra ampiezza di vedute e duttilità. Verrebbe, in un primo momento, da pensare alla classica contrapposizione destra-sinistra che, però, nella confusione attuale è stata stravolta. Come ha confermato, addirittura esemplarmente, Daniela Santanchè ospite, il 18 agosto scorso, della trasmissione «In onda», su La 7. La senatrice di Fratelli d’Italia, esponente di una destra senza se e senza ma, si è espressa a favore delle aperture, difendendo logicamente il proprio interesse di imprenditrice, che gestisce, a Forte dei Marmi, un esclusivo e redditizio ritrovo notturno. Sin qui, niente da eccepire. Ma ecco che, a sostegno della sua tesi, la Santanchè, dichiara con solennità e a voce alta: «Io parlo da madre». Con ciò sottintende che proprio il fatto di essere madre le conferisce la competenza e l’autorevolezza necessarie per svolgere un ruolo pubblico e politico.

Ora, non si tratta di un episodio raro, e neppure tipicamente italiano. L’esibizione della maternità, come pure in un crescendo della paternità, non conosce confini. Accomuna gran parte dei paesi occidentali, Svizzera in primis, dove il calo delle nascite preoccupa per le conseguenze economiche, professionali, assicurative e, in pari tempo, attribuisce alla prole il valore aggiunto di una garanzia di continuità. Ciò che, implicitamente, lusinga la funzione di mamma e papà, promossa anche sul piano mediatico, e non da ultimo perché concerne adulti sempre più maturi. Il caso Johnson non è isolato. Come dicono le statistiche elvetiche, negli ultimi vent’anni, si è triplicato il numero delle paternità over 50 e delle maternità over 35. Una situazione anagrafica che giustifica il diffuso orgoglio genitoriale e il relativo piacere di sfoggiarlo, cui stiamo assistendo. Sempre che non superi il livello di guardia e rimanga un fatto privato, condiviso nell’intimità, tra familiari e amici. L’istinto, però, gioca anche brutti scherzi inducendo a raccontare pubblicamente, sin nei minimi particolari, le prodezze del pargolo, come fossero una rarità. Difficile, poi, se si è del mestiere, non ricavarne un libro. Per citare un caso recente, anche Massimo Gramellini, bravo giornalista, si è messo in gioco pubblicando la sua esperienza di neopadre quasi sessantenne. Una sfida letteraria, tutta a suo rischio e pericolo.

Le cose vanno diversamente, quando l’«Io come madre» (o padre) si presta a un uso politico. In mancanza di altre qualifiche professionali o culturali, si sfrutta una condizione familiare che, di per sé, non significa niente. Siamo tutti, per forza di cose, senza nessun merito, padri, madri, figli, nipoti e via enumerando legami di sangue e affettivi, importanti per il nostro personale vissuto, ma insignificanti per le sorti della collettività.

Invece, proprio un fatto casuale qual è una parentela, doveva produrre, negli ultimi anni, una corrente politica e persino un partito di successo. Ispirati all’ideologia, chiamiamola così, dell’«Io come madre o come padre», nella versione, riveduta da Beppe Grillo, «Io come casalinga sarei in grado di gestire l’economia nazionale». In altre parole, il mestiere del politico esonera dal dovere dell’apprendimento e della competenza.

Sono eccessi pittoreschi a cui, noi, protetti dalla frontiera, siamo abituati a guardare con ironia e distacco, sicuri di esserne immuni. In realtà, lo spirito anticasta, antisistema, anti per essere anti, ci sta contagiando. E capita persino che qualche nostro candidato giochi la carta dei buoni sentimenti, presentandosi «come padre».