Ogni calamità ha i suoi addetti ai lavori. Quelli occasionali da attrezzare ad hoc che intervengono sul posto per prestare un soccorso immediato e mirato, che poi spetterà a ospedali e centri d’accoglienza e sostegno sociale. Com’è successo nei confronti del Covid, emergenza senza precedenti alle nostre latitudini, che ha messo alla prova le strutture, le tecnologie e il personale degli ospedali. La sanità e, in definitiva, il Paese hanno retto il colpo. Determinante il contributo di un volontariato professionalizzato. Come dimostrano i giovani della Protezione civile mobilitati per le vaccinazioni e, negli ultimi giorni, giovani e meno giovani alle prese con l’arrivo dei profughi ucraini, da sistemare adeguatamente, con conoscenza di causa. Questione, una volta ancora, di esperienza e professionalità.
Ciò detto, rimane un ambito in cui si deve improvvisare. Nell’era dell’informazione mediatica, la pandemia ha, infatti, costretto medici, politici, poliziotti, a diventare comunicatori. Con effetti contrastanti. Per i politici una batosta, non tanto sul piano linguistico, quanto su quello della popolarità. Ne sa qualcosa Alain Berset, responsabile di chiusure e aperture sempre discusse e discutibili. Mentre per altre autorità, capi della polizia in particolare, la sintassi è stata fatale. Per i medici è diventata, invece, l’occasione per conquistare quel quarto d’ora di notorietà, preconizzato da Andy Warhol. Alcuni ci hanno preso gusto. È il caso, ormai oggetto di ironie in Italia, dei virologi, onnipresenti sulle reti televisive e sfruttati nei talk show. In origine il termine definiva una novità assoluta: una forma d’intrattenimento televisivo dove la chiacchierata si fa spettacolo. Nata negli USA nel 1982, deve il successo mondiale al cabarettista David Letterman, che lo condusse per quasi un trentennio. In realtà, aveva avuto un anticipatore: Maurizio Costanzo che, per la RAI, creò Bontà loro, un incontro fra gente che si racconta. Era il 1976 e, giustamente, Costanzo si considera l’inventore del Talk. Che, però, «mi è scappato di mano», come dichiara in un’intervista rilasciata al «Foglio». Si sente, involontariamente, responsabile del degrado subito da un incontro svilito a scontro spesso violento.
Si deve parlare di derive all’ordine del giorno su canali, gestiti sia dall’ente pubblico sia da finanziatori privati, affidati a conduttori e conduttrici, ormai famosi, che si scambiano ospiti scelti, di proposito, nei ranghi degli estremisti. Così, per commentare la pandemia, largo ai negazionisti, secondo i quali il Covid sarebbe una macchinazione delle multinazionali. Alla stessa stregua, nei confronti della guerra, sta proliferando sui teleschermi d’oltrefrontiera la categoria dei «putiniani», animati da antiamericanismo viscerale. In questi salotti televisivi, niente buone maniere, fra avversari che rispettano le regole democratiche, e via libera agli scambi d’insulti e alla zuffa fra nemici irriducibili. Tutto ciò con il beneplacito di Corrado Formigli, Lilli Gruber, Bianca Berlinguer e via enumerando bravi giornalisti caduti nella trappola del successo a ogni costo. Non generalizziamo, per carità. Basta pensare a ospiti come Rampini e Caprarica (nostro concittadino: abita a Castagnola) per dare prestigio e attendibilità all’informazione parlata e scritta.
A questo punto, correndo il rischio del campanilismo, non posso fare a meno di citare quale esempio di corretta informazione su temi d’attualità, rubriche proposte dalla RSI: 60 minuti, condotta da Reto Ceschi, Falò con Michele Galfetti e Alessandra Maffioli, Patti chiari, con Lorenzo Mammone. E altri collaboratori impegnati a sfidare la concorrenza delle reti d’oltre confine, ben più brillanti, attraenti anche in Ticino. Insomma vale sempre il nemo propheta in patria.
Con ciò il cauto e pacato stile della comunicazione nostrana ottiene riconoscimenti da osservatori qualificati: Emanuele Parsi, politologo e docente alla Cattolica di Milano e all’USI, recentemente ha fatto notizia di cronaca piantando in asso la trasmissione Carta Bianca, in segno di protesta per l’eccessivo spazio offerto al fanatico di turno. Incidenti, doveva poi precisare, che sugli schermi ticinesi non succedono.