In questi ultimi mesi si è sentito dire spesso che Internet si è rotto. Lo ha detto il padre della Rete Tim Berners-Lee sul «Guardian» esprimendo preoccupazione per tre tendenze che in particolare minano l’essenza del Web in quanto piattaforma aperta e accessibile a tutti per condividere informazioni, cogliere opportunità, collaborare al di là delle barriere geografiche e culturali. A suo avviso, se vogliamo che Internet diventi davvero uno strumento virtuoso al di servizio dell’umanità intera, ci sono tre questioni da risolvere: riconquistare il controllo sui nostri dati personali, evitare il diffondersi della disinformazione, più trasparenza nella propaganda politica. Si è unito al coro anche il fondatore di Twitter Evan Williams che sul «New York Times» ha dichiarato: «ero convinto che nel momento in cui ognuno di noi avesse potuto parlare liberamente, scambiare informazioni e idee il mondo automaticamente sarebbe diventato un posto migliore. Mi sbagliavo». Non a caso, proprio in questi giorni, Twitter ha annunciato di voler introdurre un nuovo servizio per il controllo delle fake news. L’uccellino azzurro starebbe pensando di inserire una funzione che permette di contrassegnare quei Tweet che contengono informazioni false, fuorvianti o dannose.
Mark Zuckerberg invece, proprio nel momento in cui a mio avviso Facebook dimostra di avere perso il suo iniziale spirito social, dice che in futuro la sua piattaforma avrà la missione di fungere da punto di aggregazione per le comunità del mondo, avvicinerà di più le persone, una sorta di chiesa virtuale che riunisce i suoi fedeli. A parte che già la Chiesa da decenni fatica in questa impresa, «Il Guardian» in un articolo di Peter Ormerod accusa il padre del social network di avere eccessive manie di grandezza e di soffrire del God complex ora che la piattaforma ha raggiunto i due miliardi di utenti unici al mese. Insomma, non esageriamo. Ci sono così tante sottigliezze, differenze, sensibilità, storie, appartenenze, credi e mentalità che uno o più algoritmi non potranno mai mettere sotto un unico cappello digitale. Anche Facebook e più in generale la Rete hanno dei limiti e vanno riconosciuti. E il primo siamo proprio noi esseri umani. C’è da meravigliarsi? Per quanto la Rete in potenza possa essere il luogo e il mezzo più democratico, aperto, propositivo, virtuoso e collettivo a cui si possa pensare, a viverla, abitarla e utilizzarla siamo noi, parte di un’umanità e di una società moderna che – prendo a prestito le parole di Bauman – non sa nemmeno che cosa sia la felicità e ha perso la tensione verso un modello, verso uno stato di perfezione come lo intendeva Leon Battista Alberti. Siamo anche una società che ha disimparato l’arte di convivere con il diverso e con le differenze. Non va molto lontano il pensiero dell’antropologo Marc Augé che, nel suo ultimo saggio appena pubblicato in italiano Un altro mondo è possibile, ci racconta di un’umanità che ha perduto il suo faro, un’umanità che non sa dove sta andando, non sa ambire al futuro mentre vive nell’illusione di una globalizzazione economica e tecnologica. Ma, soprattutto, ci racconta di una società mondiale ineguale e ignorante, condannata al consumo e all’esclusione.
Credo, se vogliamo davvero salvare Internet e far sì che diventi quello strumento democratico garante di uguale accessibilità e condivisione per tutti in cui ognuno si muove nel rispetto degli altri, che non basti inserire nuovi servizi di controllo delle fake news. La sfida sta nel costruire una società artefice nella realtà di quel mondo democratico, aperto, accessibile, inclusivo e virtuoso che sogniamo per la Rete. Dovremmo però fermarci un istante, riflettere e riconoscere di trovarci in una situazione d’impasse. E invece corriamo, consumiamo, fagocitiamo come se non ci fosse un domani. Come se l’attimo vivente fosse per sempre, dilatato dalla potenza tecnologica che cancella passato e futuro. Eppure, come ci dicono Tim Berners-Lee e molti altri, il dirupo è a pochi metri. Non solo in Rete.