Ingarellarsi per il dialetto

/ 29.11.2021
di Paolo Di Stefano

Michele Rech, in arte Zerocalcare, merita di volare su un voto d’aria alto (5+). Meravigliosa la serie animata trasmessa su Netflix, Strappare lungo i bordi, sia per i disegni sia per il linguaggio, velocissimo come quello degli adolescenti d’oggi, flusso di coscienza mimetico, strambo, onirico a tratti, malinconico, comico e persino disperato. Si è polemizzato nei social sull’uso spinto del romanesco (con necessità di sottotitoli per i non romani). E qui si coglie, se ce ne fosse bisogno, l’assurdo di tanti polveroni avviati su Facebook (3) o su Twitter (3+).

Ne è nata una polemica talmente idiota che non si capisce allora perché, mutatis mutandis, non polemizzare con Carlo Emilio Gadda perché fa parlare i personaggi del Pasticciaccio in quer «maccheronico inconcludente» e incomprensibile, o perché non attaccare Pier Paolo Pasolini per il gergo der ladruncolo borgataro Riccetto in Ragazzi di vita. E Camilleri, allora? E Gomorra? Che ne facciamo? Avviamo una polemicuccia perché usano espressioni idiomatiche locali? Siamo al livello zero (senza calcare) di intelligenza e al livello mille di scemenza. Tant’è vero che lo stesso Zerocalcare ha risposto ironicamente su Twitter rincarando la dose: «Madonna rega come ve va de ingarellavve su sta cosa». Ovvero: «Madonna ragazzi, come vi capita di mettervi a discutere di questa cosa», usando un verbo, «ingarellarsi», che significa romanescamente «mettersi a competere, fare a gara».

Sempre mutatis mutandis, sarebbe come pretendere da Joyce che scriva pane al pane piuttosto che adottare una lingua pressoché indecifrabile per raccontare la passeggiata del suo Leopold Bloom per le vie di Dublino. Oppure, se vogliamo concentrarci sul cinema, con questi criteri si rischia di «ingarellarsi» con Federico Fellini accusandolo di aver troppo colorato di romagnolo una delle scene più tenere di 8½, quella in cui la nonna mette a nanna i nipotini al lume di una candela: «Durmì ben, creaturèini…» (voto d’aria 8½). Per non parlare del nonno di Amarcord, che pronuncia frasi come: «È ba de mi ba u m’à imparè» (8½ bis), che tradotta sarebbe: «Il babbo del mio babbo mi ha imparato…».

Che cos’è questo bisogno irresistibile di trasparenza, questo pretendere di capire tutto senza fare i conti con le esigenze dell’espressione artistica, di qualsiasi arte si tratti? Ecco uno dei caratteri più tipici della nostra turgida epoca: essere sempre pronti a «ingarellarsi» con chiunque pur di far echeggiare il proprio ego.

Uno storico della lingua, Massimo Palermo, è intervenuto nel sito letterario Le parole e le cose (5++) a difesa del romanesco adottato da Zerocalcare: che secondo Palermo supera addirittura le intenzioni di Pasolini e di Gadda, perché conferisce al dialetto una possibilità che non ha mai avuto: quella di comunicare a 360 gradi, dall’alto al basso, non più solo di far parlare le periferie e i margini come accadeva in Pasolini, o di mettere in scena il gliommero comico-grottesco della vita come in Gadda. Qui si attraversa in dialetto il comico, il tragico, la riflessione esistenziale e la riflessione politica: «Insomma, – scrive Palermo – si viene molto spiazzati emotivamente, al punto da solidarizzare liberatoriamente con una delle citazioni che stanno più girando nei social: Però volevo guardà ’na serie, non fà psicoterapia, li mortacci tua!». Dio sa di quanta psicoterapia avrebbero bisogno gli adolescenti al tempo del Covid.

C’è anche un antico pregiudizio contro il romanesco un po’ strafottente e sbracato con cui è cresciuta la Rai, fino a diventare egemonia linguistica nazionale in bocca a presentatori e giornalisti. Per la verità ancora oggi qualcosa di simile accade. Qualche settimana fa, uno scambio di battute tra il conduttore e un ospite col dito bendato: «Tutto bene?». «Benino, te?». «Che c’hai ar dito?». Seguiva sondaggio in studio per alzata di mano con domanda preventiva der presentatore: «Chi li sta a segna’ i voti?».

Per mitigare il pregiudizio anti-romanesco, spenta la tv, non resta che andare in libreria e cercare le Poesie di Trilussa (5), appena uscite in una nuova edizione Bur Rizzoli, per gustarsi certi quadretti della società di un secolo fa, non molto dissimile da quella di oggi. Leggere per credere l’apologo sul ricco avaro: «avaro a un punto tale / che guarda li quattrini ne lo specchio / pe’ vede raddoppiato er capitale».