Quando Edmund Schechter, un ebreo di Vienna che fuggì dai nazisti, tornò in Germania nel 1945 trovò una «terra desolata», non soltanto dal punto di vista della devastazione fisica ma anche «psicologicamente». Tutti i quotidiani erano stati chiusi, le radio erano state distrutte: quel silenzio era, ricordò Schechter che avrebbe partecipato alla ricostruzione, un «territorio vergine» da cui poteva rinascere qualsiasi cosa, dal principio. Il silenzio fu riempito da emittenti pubbliche che si ispiravano agli inglesi, agli americani, ai francesi e che avevano come scopo non soltanto di riempire il silenzio, ma soprattutto restaurare la democrazia in quella parte di Germania che era nella sfera d’influenza dell’Occidente. Da questa premessa parte la ricerca di tre economisti americani, Levi Boxell, Matthew Gentzkow e Jesse Shapiro, sui media tedeschi in cui si individua un crollo della polarizzazione dei contenuti che va di pari passo con un aumento del consumo di informazione da parte dei cittadini. Come a dire: ci fidiamo di voi.
Il modello tedesco è, secondo questi ricercatori, un ibrido tra il federalismo americano e la libertà dei media britannici, con una regolamentazione equilibrata che tiene vicino il pubblico e a distanza il governo e le sue eventuali interferenze. Secondo un’esperta degli affari tedeschi, Constanze Stelzenmüller, l’informazione pubblica «ricominciò come uno strumento della rieducazione democratica e della rifondazione del pluralismo politico del paese e poi si mutò in uno strumento di prevenzione di nuove forme di disinformazione e di propaganda provenienti soprattutto dall’est, durante la Guerra fredda. Per questo il pubblico è alto, la fiducia pure e gli investimenti enormi, anche comparati al ricco mercato dell’informazione americano. Ancora oggi, il 12 per cento dei tedeschi ogni sera guarda il telegiornale delle 20 dell’Ard, la principale emittente pubblica tedesca,quindici minuti di informazione che nei sondaggi vengono spesso indicati come imprescindibili. C’è una correlazione precisa tra l’informazione accurata e la fiducia dei cittadini nelle istituzioni: non è un caso che i movimenti populisti hanno come primo obiettivo delle loro accuse i cosiddetti media tradizionali. Più questi sono forti, quindi poco polarizzati, più i populisti li attaccano, sempre con il loro approccio vittimistico: ci trattano male, non ci capiscono, ci sottovalutano, vi ingannano.
L’AfD, il partito anti europeo tedesco che poi è diventato il ricettacolo di ogni genere di xenofobia compresa quella neonazista, da anni cerca di minare l’autorevolezza delle emittenti pubbliche e utilizza i social media per proporre i suoi «fatti alternativi». È un fenomeno comune in Europa (in America il modello è stato impostato ed esportato da Donald Trump e continua a funzionare, come dimostrano le difficoltà enormi nella campagna di vaccinazione), dove sono state trovate anche forme di lotta più brutali: in Ungheria, il premier Viktor Orbán non solo attacca i media europei ma ha fatto in modo di sopprimere il pluralismo chiudendo emittenti e stampa dell’opposizione e mettendo tutti gli altri in un gruppo editoriale unico guidato da suoi sodali. Anche la Polonia del PiS sta andando nella stessa direzione, anche se incontra maggiori difficoltà perché la dissidenza polacca è più organizzata di quella ungherese. In Germania si continua a registrare una sostanziale immunità alla polarizzazione. Il canone televisivo non è visto come una tassa ma come un accesso a un servizio unico, esattamente come accade con le piattaforme tipo Netflix cui ci abboniamo senza batter ciglio. I piani di investimento hanno una durata lunga, in modo che le ingerenze dei vari governi, soprattutto quelli locali visto che il servizio è declinato in modo federale, non possano farsi sentire: l’alternanza ha la meglio anche sulle priorità di finanziamento.
Questo non vuol dire che le influenze non ci siano o che le polemiche non ci siano: lo scorso inverno, l’aumento del canone di 86 centesimi nella Sassonia-Anhalt fece quasi cadere il governo locale. Ma di certo il sistema tedesco è più solido e riesce ad arginare meglio le eventuali polarizzazioni, anche nel settore privato. I tedeschi hanno interiorizzato un modo di relazionarsi con le emittenti pubbliche che funziona come uno standard rispetto a tutto il resto: ci sono molti più stimoli informativi, tra social e privati, ma tutto quel che si discosta dal modello originario viene accolto con un iniziale scetticismo. Questo vuol dire che per ottenere la fiducia degli ascoltatori o dei lettori, i nuovi media devono dimostrare di essere all’altezza del confronto con il settore pubblico. L’equilibrio nella gestione della politica – la Germania produce governi centristi da molti anni –aiuta a dare credibilità a tutto il sistema: è un po’ il contrario di quel che accade in moltissimi altri paesi occidentali.
Informazione e fiducia nelle istituzioni
/ 23.08.2021
di Paola Peduzzi
di Paola Peduzzi