Fra le paure diffuse nei confronti delle minoranze etniche nomadi – e nella fattispecie, per quanto concerne l’Europa, nei confronti di Rom e Sinti – riguarda il rapimento dei bambini. Da questa parte delle Alpi poi, con l’apparentemente irresistibile ascesa del cosiddetto sovranismo populista, non sono mancati negli ultimi anni episodi di vero e proprio panico collettivo. Uno studio sociologico condotto su trenta casi di presunto rapimento di bambini da parte di Rom fra il 1986 ed il 2007 ha appurato come in nessun caso le accuse siano state confermate da parte della polizia o della magistratura. Fake news sempre peraltro appetitose. Il tema dell’infanzia rapita ed allevata da alieni è peraltro un classico del folclore europeo da Romolo e Remo agli Alieni passando per il tema narrativo della sostituzione nella culla di infanti umani con la prole mostruosa di personaggi sovrannaturali di ogni ordine e grado presente nella narrativa orale dalla Scandinavia alla Sicilia.
«Da noi non ci sono orfani» mi spiegava anni fa un anziano Vagla in un villaggio del Nord del Ghana. Ed in effetti, date le condizioni demografiche e le circostanze economiche i bambini sono un bene prezioso oltre che scarso. In presenza di condizioni di produzione nelle quali l’input di forza lavoro umana eccede la tecnologia, i bambini fungono da riserva energetica essenziale alla sopravvivenza del gruppo, specie laddove al basso contenuto tecnologico del processo produttivo corrisponde inevitabilmente un alto tasso di mortalità infantile dovuto a malnutrizione ed epidemie. Qui, altropologicamente parlando, non si tratta tanto di cinismo quanto di una questione di pura e semplice sopravvivenza in circostanze men che favorevoli. Come ben sapevano i coloni che dalla costa orientale degli Stati Uniti si spingevano verso l’interno alla ricerca di nuove terre e nuove opportunità. Dal canto loro, i nativi americani, pressati sempre più verso l’interno spesso in condizioni di deficit demografico dovuto alle guerre con coloni e gruppi indigeni in competizione territoriale ed esposti a nuove, devastanti epidemie dallo stesso contatto coi coloni bianchi, trovavano nella pratica del rapimento di bambini un mezzo marginale ma efficace per contrastare le perdite.
Fu così che il 21 maggio del 1758, Mary Campbell, una bambina di 10 anni, fu rapita da un insediamento di coloni a Penn Creek. I suoi rapitori erano una banda di Lenape, nativi americani conosciuti anche col nome di Delaware. Secondo la tradizione locale, dopo essere stata nascosta in una caverna per un certo periodo, Mary fu adottata dalla famiglia di una capo Lenape che la portò nel suo villaggio vicino alle Cascate del Cuyahoga, nell’Ohio contemporaneo. Il nome del suo padre adottivo era Netawatwees – conosciuto fra i coloni, ironia della sorte, come Newcomer, «l’ultimo arrivato». Newcomer avrebbe persuaso la sua gente ad adottare uno stile di vita stanziale simile a quello dei coloni bianchi, e sarebbe stato dunque il fondatore dell’attuale città di Newcomerstown. Incidenti come quello che vide protagonista Mary Campbell non erano infrequenti dati i turbolenti scambi fra coloni e nativi. Nel 1764 maturarono le condizioni per una crisi che portò prima a scontri armati peraltro di poco conto e poi a un armistizio che comprese lo scambio di prigionieri. Una lista di 60 nomi di coloni liberati dai Delaware datata 15 novembre 1764 comprende anche Mary Campbell. Secondo fonti orali tramandate in famiglia, Mary non era all’inizio affatto contenta di tornare fra i suoi. Sappiamo che dei 60 «liberati» nello scambio di prigionieri/rapiti almeno 30 tentarono di tornare a vivere coi loro rapitori, con la grande sorpresa, scandalo e indignazione da parte dei coloni che lascio immaginare.
La nostalgia di Mary per la sua vita fra i nativi non è affatto un caso raro fra coloro che vissero vicende analoghe. Cynthia Anna Parker fu rapita dai Comanche all’età di 9 anni nel 1836. 24 anni dopo fu riunita alla sua famiglia dopo che i Ranger federali avevano attaccato il suo villaggio e ucciso suo marito, un guerriero Comanche. Iniziò un prolungato sciopero della fame fra ripetuti tentativi di fuga. Eunice Williams visse una simile vicenda ma riuscì a restare con suo marito – un guerriero Mohawk. Mary Jamison passò la sua vita di donna sposata con un guerriero Delaware, sempre rifiutandosi di «tornare a casa». Hermann Lehmann, rapito a 8 anni, visse come un rispettato guerriero Apache fino a quando, riconosciuto da sua madre all’età di 19 anni all’interno di una riserva, si persuase a malincuore che una vita libera «da Viso Pallido» era preferibile ad una vita in riserva «da Pellerossa». Olive Oatman, i Cinque Fratelli Boyd, Theodor Babb, Adolph Korn e tanti altri...
Biografie le quali, ciascuna nella sua specificità, testimoniano dell’importanza dell’identità culturale e sociale acquisita negli anni dell’inculturazione primaria. Al di là del primato dello «ius sanguinis» – il «diritto del sangue» e del suo appeal che troppi, oggi, vorrebbero porre a fondamento del nostro essere umani.