Antichi maestri, maestri cattivi. Si sprecano gli aggettivi per il maestro, la maestra, come si chiama chi insegna ai livelli minimi, scuole materne e primarie, e a quelli superiori: maestri di vita, maestri d’arte, «maestro», come si chiama per non sbagliare chiunque pratichi un’arte e non voglia o non possa essere «professore», nemmeno dottore. Maestro è quindi chi è più e meno di un qualunque docente. A ben pensarci, è più e più. Per lasciare una traccia nei piccoli è necessaria vera maestria, invece tutti sono capaci di trasmettere nozioni a giovinetti delle medie e del liceo, che devono comunque ottenere precise conoscenze in vista del loro futuro. Altro è intercettare la funambolica mistura di intuito sensibilità e intelligenza che attraversa la mente del bambino.
Confesso di avere avuto l’immensa fortuna di una brava maestra alle scuole che allora si chiamavano elementari. La sua voce mi torna in mente per sciogliere i dubbi di una «i» nei composti di «scienza», così come nel mettere a punto un corretto atteggiamento verso le religioni, le diverse religioni. L’Odissea raccontata come una fiaba, le tabelline giocate con collane di pietruzze colorate. Cara maestra Vittoria, come dimenticarti. E dire che nel mondo accademico ci si libera in fretta dei maestri.
Vogliamo dare un’occhiata alle primizie della filosofia? Non andò a tutti bene come a Parmenide, che si trovò discepoli in grado di spiegare con paradossi e teoremi una dottrina di per sé oscura. Per lui, Parmenide, l’essere è e il non essere non è. Tutto è ciclica ripetizione, tutto è eterna staticità, il movimento e il divenire costituirebbero una sorta di terza via, la via dell’apparenza, non del tutto senza senso ma nemmeno, suvvia, nemmeno degna dell’essere. E come mai? Parmenide non lo spiega, per fortuna intervengono devoti i suoi allievi, Zenone e Melisso. Non vi azzardate ad attaccare il Maestro, adesso vi spieghiamo perché. Ed ecco per esempio Zenone di Elea con il paradosso di Achille e la tartaruga, dunque la considerazione che la tartaruga partita con un minimo anticipo, per quanto lenta, non potrà mai essere raggiunta da Achille dal piede veloce, perché quando il guerriero avesse superato i dieci metri di distanza tra loro, la povera tartaruga sarebbe comunque avanzata di un centimetro, e poi di un millimetro, quando Achille avesse superato quel centimetro di distanza e così via. Già Aristotele ebbe da ridire, è vero, spiegò che in potenza la distanza tra i due è incolmabile in quanto l’avanzamento della tartaruga diventa infinitamente piccolo ma sempre passibile di ulteriore frazionamento, ma è altresì vero che in atto tutto ciò non ha senso. La fisica quantistica, nel secolo scorso, avrebbe definito insignificanti rispetto alla misurazione le distanze piccolissime.
Ma Zenone voleva aiutare il Maestro. Ben diverso fu l’atteggiamento di Aristotele verso Platone. Per più di vent’anni l’uomo amico dei Macedoni, quasi turco di nascita, frequentò l’Accademia dell’ateniese Platone. Lo straniero tacque, pubblicamente, forse intervenne nelle dispute interne alla scuola. Non manifestò la sua opinione fino alla morte del Maestro. Estrema finezza? Superba viltà? Non lo sapremo mai, né ci interessa più di tanto, se pure lascia senza parole la virulenza del non più giovane Aristotele nell’attaccare le teorie platoniche: così, se per definire il gatto Simeone occorre rifarsi all’idea della «gattità», dovremo anche considerare l’idea di animalità, di bianchezza (se il gatto è bianco), di pelosità, di appartenenza alla cugina Clotilde, di essere Simeone… e così all’infinito. A cosa serve una follia di idee per pensare a un gatto o parlare di un gatto? Aristotele apprezzò il maestro, così tanto da confutarlo con precisione e senza misericordia, come è giusto che si conducano le diatribe scientifiche.
Ma andiamo avanti nei secoli: Eloisa ebbe un ottimo maestro, Abelardo bello e intelligente, troppo bello, troppo intelligente, non finì bene, anche se la riconoscenza della ragazza non diminuì mai. San Tommaso studiò a Colonia da Alberto Magno, e con giovamento: un raro caso di napoletano di origini siciliane che volentieri studia alla scuola di un tedesco del nord, nemmeno un bavarese. Inutile poi citare Cartesio, maestro che rimase ucciso dallo zelo per insegnare a Cristina, regina di Svezia, che amava studiare filosofia all’alba: in dieci giorni una polmonite portò via il maestro, che seguiva le tristi tracce di Ugo Grozio, valente studioso di diritto venuto a mancare già sulla strada per raggiungere la regale allieva Cristina. E per venire allo scorso secolo, fu Bertrand Russell maestro di Ludwig Wittgenstein? Per età, sì. Per quanto riguarda l’aiuto del maestro all’allievo, sì, perché senza la prefazione di Russell mai si sarebbe pubblicato il Tractatus di Wittgenstein. Ma quanto l’uno aiutò l’altro? Per fortuna non lo sappiamo, tra adulti non si può stabilire in maniera definitiva chi riceve cosa da chi. Ma quando si è bambini, sì, si sa chi è la Maestra. Grazie maestra Vittoria.