Devo gran parte di quel che mastico di geopolitica e di economia a John Kenneth Galbraith e in particolare a un suo libro degli anni Settanta in cui ha riportato la sceneggiatura di un documentario da lui realizzato con la BBC con lo stesso titolo: L’età dell’incertezza. Ho ripreso il libro (edizione A. Mondadori) negli scorsi giorni per un caso abbastanza inusuale, se non strano. Avevo visto in libreria lo stesso titolo sulla copertina di un altro volume (è di Vera Slepoj, editore Feltrinelli; tratta dell’adolescenza per – dice nel sottotitolo – «capirla per capire i nostri ragazzi»). Subito il mio pensiero era corso a Galbraith e l’analogia mi aveva suggerito l’idea di provare a tracciare un confronto fra l’incertezza degli adolescenti e quella che viviamo all’ombra delle crisi che si succedono senza fine ormai da un decennio. Però non me la sono sentita di affrontare quasi duecento pagine per aggiornare le mie conoscenze sulle problematiche adolescenziali. Allora, scoperto che il libro «compiva» 40 anni, ho deciso di limitarmi all’incertezza della nostra società, riproponendo questa lapidaria analisi di Galbraith: «Nel secolo scorso i capitalisti erano certi del successo del capitalismo, i socialisti del socialismo, gli imperialisti del colonialismo e le classi dominanti di essere fatte per dominare. Di tanta certezza resta oggi poco o nulla, e sarebbe davvero strano se ne restasse, posta la paurosa complessità dei problemi che il genere umano si trova oggi ad affrontare». È una chiara dimostrazione che in fatto di attualità Galbraith non ha perso nulla e consente di approdare alla conclusione che in definitiva siamo ancora lì: l’incertezza di quasi mezzo secolo fa, cioè della fine degli anni 70 era praticamente la stessa, perlomeno per gravità e incidenza, di quella che oggi condiziona le grandi economie e fa ricadere effetti negativi su intese e contese geopolitiche.
Secondo riscontro: sono anni che l’incertezza continua a planare sull’Olimpo degli economisti che van per la maggiore, quelli che – dai Nobel Stiglitz e Krugman agli eccentrici Piketty e Varoufakis – un giorno sì e l’altro pure, offrono generosamente spiegazioni e rimedi sui media e, purtroppo, anche soluzioni come consiglieri attivi in campagne elettorali o in governi. John Kenneth Galbraith ci aveva avvisati del pericolo. Seguendo un’annotazione, a pag. 213 del suo saggio c’è infatti questo fulminante avvertimento: «Gli economisti sono economi tra l’altro anche in idee. E ancora oggi è così. Fanno durare tutta la vita quello che hanno imparato all’università. I cambiamenti in economia vengono soltanto col cambio di generazione». Quasi una sentenza, comunque un forte indizio del perché dopo tanti anni (cambio generazionale all’orizzonte?) siamo ancora in attesa di un Diogene economista capace di interpretare le crisi e soprattutto di impedire che la paura di un «rien ne va plus» del passato continui a condizionare, se non a distruggere, anche l’unica conquista degli ultimi decenni: la globalizzazione.
Uscendo dall’incertezza di Galbraith, trovo sui media uno stuolo di economisti che concelebrano il 10. anniversario della crisi dei mutui, poi ribattezzata dei «subprime», iniziata nel 2007 e ancora in atto, e in teoria sempre sotto controllo. Ricordate? Prime scosse in Europa (NorthernRock e Paribas), poi una febbre che arriverà sino al fallimento della Lehman Brothers negli Stati Uniti e, per noi, sino all’Ubs costretta a chiedere un tetto sicuro a Berna. Da un decennio banche centrali e politiche economiche sono praticamente paralizzate da spettri che avrebbero potuto (e forse possono ancora…) trasformare la recessione in depressione. Se oggi non si trema più per banche e mercati finanziari, non è certo che tutte le bugie siano venute a galla. Tanto più che questi avvitamenti delle incertezze alimentano altre crisi. Come quella del Venezuela, in cui il socialismo ancora una volta ammette di essere malato, ma ancora una volta vuol dimostrare di poter guarire. O come quella della Turchia che, pur avendo più professori e giornalisti in carcere che nelle scuole e nelle redazioni, prosegue tranquilla. È la prova che l’incertezza continua a turbare un po’ tutti i paesi occidentali, con punte elevate un po’ per colpa di chi le spara grosse (Trump), oppure di chi spara davvero (Siria e terrorismo islamico), come pure di chi si prepara a usare bombe nucleari o sfida altri a farlo. La conclusione la trovo scritta da Francesco Giavazzi e Alberto Alesina sul «Corriere della Sera» (12 agosto): «Sarebbe molto più utile se gli economisti riconoscessero la difficoltà di capire un periodo anomalo e di grande incertezza invece di pronunciare “verità”. L’incertezza è l’unico fulcro intorno al quale ruotiamo, e l’incertezza non aiuta a investire e crescere». Un indiretto invito a rileggere anche le incertezze descritte da Galbraith, a «capirle per capire» meglio quelle di oggi.