In vacanza con cattiva coscienza

/ 01.07.2019
di Luciana Caglio

È l’inattesa compagna di viaggio, una sorta di guastafeste, con cui ci si trova a fare i conti, sotto l’influsso di parole sempre più ricorrenti nelle cronache e nei discorsi quotidiani, che esprimono gli umori del momento tanto da determinare i nostri comportamenti di vacanzieri. Si tratta, evidentmente, di «overtourism», neologismo in uso da qualche anno, e del più recente «flightshame», arrivato sull’onda dell’effetto Greta. La traduzione è superflua. Nell’era globale, il linguaggio definisce situazioni, e spesso guai, che non conoscono frontiere. Anche la Svizzera, culla di un turismo elitario che, nella seconda metà dell’800, valorizzò le Alpi e le rive dei laghi, subisce, adesso, le conseguenze dell’«overtourism».

Con le contraddizioni che comporta, quando l’auspicato «molto» diventa l’incontrollabile «troppo». Il caso più rappresentativo è Lucerna, presa d’assalto dai cosiddetti ospiti di giornata. Fra aprile e ottobre, in media 95 torpedoni riversano, ogni giorno, migliaia di visitatori che affollano il centro storico o salgono sul Rigi, la vetta che registra un’affluenza da record: 800’000 persone, superata soltanto dalla Jungfrau, dove la più alta ferrovia d’Europa ne recapita un milione all’anno. Altri punti nevralgici, le cascate del Reno a Sciaffusa e le gole dell’Aar a Meiringen.

Il Ticino, per sua fortuna o sfortuna, questione di opinioni, è rimasto sinora al riparo da arrivi che, altrove, giustificano allarme, e infine alimentano la cattiva coscienza del viaggiatore.Di fronte alle immagini di Venezia, Barcellona, Amsterdam, vittime di un turismo sgangherato, c’è da chiedersi se tutto quest’andare per andare abbia ancora un senso. Osserva Christian Laesser, docente di economia turistica all’università di San Gallo e all’USI: «Si è passati dal desiderio di avere tanti turisti alla protesta e alla lamentela per i danni che provocano». Da qui, un diffuso bisogno di distanziarsi dal turismo di massa: definizione dai connotati ormai negativi. La precisazione è d’obbligo, negativi per noi, cittadini che, da decenni, godono il privilegio di andare liberamente in vacanza, anche grazie al diritto alle ferie pagate.

In Svizzera, una prima legge federale in materia risale al 1911. In Gran Bretagna, già nel 1871, il Bank Holyday Act, prevedeva 4 giorni di ferie pagate per il settore bancario. In Francia, il Front populaire estese la vacanze a tutte le categorie nel 1936, «il primo anno della felicità», secondo la famosa definizione di Léo Lagrange.Tutto ciò per dire che il turismo di massa racconta una storia strettamente legata alla democrazia. E quindi la condanna morale e culturale, giustamente diretta agli eccessi dell’«overtourism», rischia, adesso, di colpevolizzare una conquista, un fenomeno popolare che sta coinvolgendo cittadini, finora esclusi. Non per niente, Venezia si trova alle prese con l’invasione di visitatori provenienti soprattutto dai paesi dell’est, Russia compresa, magari in preda all’euforia di una nuova libertà, e a volte incapaci di gestirla. Mentre a Lucerna l’eccesso di turisti concerne in prevalenza cinesi.

In proposito, non posso fare a meno di ricordare che, durante un viaggio, nel 1995, appunto in Cina, le guide ci confessavano il loro irrealizzabile sogno di andare in vacanza, di uscire dai confini, ancora cortina di ferro.Fatto sta che la politica si fa sentire anche sul tempo libero, attraverso effetti collaterali. Quali sono gli scrupoli etici e ambientali che inducono a rinunciare ai viaggi. Si tratta di una scelta suo modo elitaria, che trova seguito nelle nostre società evolute e sensibili a certi umori.

Dove la parola d’ordine più gettonata del momento è «Shameflight»: la vergogna di volare, per non rendendersi complici di un incombente disastro planetario. Difficile stabilire in quale misura il rifiuto di salire a bordo di un mezzo, ritenuto inquinante, sia effettivamente condiviso. Intanto, però, i seguaci di Greta, che si recherà negli USA per mare, fanno bella figura, e implicitamente colpevolizzano il grande popolo dei viaggiatori che approfitta dei voli «low cost». È, insomma, il rovescio della medaglia di una scelta, forse solo in apparenza virtuosa.

Qualcuno, ma piuttosto a bassa voce, osa replicare che anche i transatlantici inquinano e persino l’agricoltura produce CO2. Cifre e tesi che, ovviamente, superano le mie competenze di giornalista. Che, però, si concede lo sfizio del dubbio.