In trattoria

/ 19.04.2021
di Bruno Gambarotta

Ho nostalgia della trattoria del paese dei miei nonni. È stata aperta dopo un consiglio di famiglia. Le due opzioni rimaste erano lavanderia a secco o trattoria. Le macchine della lavanderia costavano troppo e in casa c’era una nonna che come cucina lei non cucina nessuno, ha vinto la trattoria. Si sviluppa su due ambienti. Nel primo, entrando, si trova il bancone del bar e tre tavoli sono occupati dai giocatori di carte. I giochi possono variare ma tutti esigono dai giocatori l’emissione continua di urla gutturali. In un angolo un trabiccolo sorregge il gigantesco schermo del televisore sintonizzato su una emittente locale che manda in onda la pubblicità di un mobilificio. Dietro il bancone del bar, al centro della parete si ammira un quadro con l’ingrandimento fotografico del padre del titolare, con un lumino perenne e un grazioso mazzolino di fiori di plastica.

Noi optiamo per la seconda sala a cui si accede inciampando in un gradino che non è segnalato. Qui non c’è il televisore, in compenso c’è la radio, uno scatolone appoggiato sulla credenza, sintonizzata su una frequenza popolata da messaggi di ascoltatori alternati a ballabili. A parte la radio l’ambiente è tranquillo, uno dei tavolini è occupato dal figlio più giovane del padrone intento a fare i compiti. Il ragazzo, al nostro ingresso, alza lo sguardo e scommette sul fatto che almeno uno di noi abbia letto qualche libro oltre la quinta elementare. Risultato: dobbiamo aiutarlo a risolvere un semplice sistema di due equazioni a due incognite.

Ora, qual è quella persona di media cultura che non ricorda la regola di Ruffini? Ci salva l’arrivo del padrone che, ligio al galateo, indossa una canottiera di due misure più piccola in modo da garantirci la contemplazione, a cinque centimetri di distanza, del suo ombelico ornato da un ciuffo di peli. Impugna un tovagliolo ma, dovendo tenere con una mano il taccuino e con l’altra la biro, non trova di meglio che infilarlo sotto l’ascella sudata. Tutti in paese sono conosciuti con un soprannome, il suo è Chanel numero 5. Con quel tovagliolo darà una bella ripassata ai bicchieri prima di posarli sul tavolo. La tovaglia, se avesse il dono della parola, potrebbe raccontare una vita movimentata.

«Che vino vi porto? Bianco o rosso?» è la domanda prima ancora di sapere cosa abbiamo intenzione di ordinare. «Di che marca?», chiediamo. «Il vino della casa, è ottimo, genuino, fatto con l’uva (vorrei vedere!), lo bevono tutti». E indica con un largo gesto un paio di tavoli di avventori con l’aria rintronata. «Cosa avete di vino imbottigliato?» Parte una filastrocca di nomi mai sentiti. «E qualche bottiglia di marca?» Se c’è è esposta in una vetrinetta che prende il sole 18 ore al giorno. Passiamo all’ordinazione. Niente menù. I piatti sono recitati a voce senza stacchi dal padrone: «Come primo abbiamo: minestronepastaefagioliagnolottitagliatellegnocchialragùoalgorgonzolarisottoaifunghioagliasparagicannellonitimballodipatate». Arrivato al fondo abbiamo dimenticato i primi nomi della lista, gli facciamo ripetere la litania un paio di volte e poi ci arrendiamo.

Ordiniamo gli agnolotti, è un piatto tipico, andiamo sul sicuro. Con il ragazzo, esaurita matematica, siamo passati a italiano. Prima che arrivino i piatti facciamo in tempo a svolgere il tema: «Cosa pensi quando alzando gli occhi vedi sfilare nel cielo le frecce tricolori?». Noi vorremmo puntare sul patriottismo ma il ragazzo ci spiega che la sua insegnante è fissata con l’ambiente e l’ecologia. Allora scrivi: vedo le frecce e penso a quanto cherosene bruciano per aumentare l’inquinamento. Ecco finalmente i sospirati agnolotti: galleggiano in un brodo marroncino che sarebbe il famoso e celebrato dalle guide sugo d’arrosto per gustare il quale vengono buongustai perfino dall’estero.

Al nostro vicino di tavola servono una meravigliosa terracotta fumante. Siamo curiosi, «Cos’è?» chiediamo al padrone. «Non lo vedete? È la nostra specialità: zuppa di farro, cotenna di maiale, trippa, fagioli e rosmarino sopra un letto di fette di pane raffermo». «A noi non l’ha detto che c’era anche questo piatto nel menù». «Mica me l’avete chiesto se c’era». «Possiamo averne una porzione in due, così l’assaggiamo?». «Mi dispiace questa era l’ultima porzione. A voi posso portare un bel brasato al barolo». No! Il brasato no! Dobbiamo lottare a sangue per non farci affibbiare il brasato al cosiddetto barolo che è lì da tre generazioni e che viene rinfrescato ogni tanti giorni con l’aggiunta del vino avanzato da qualche commensale.

A fine pasto abbiamo bisogno di qualcosa di forte per mandar giù gli intrugli che ci sono stati ammanniti. Qui abbiamo una ricca scelta fra una grappa in una bottiglia senza etichetta, un fondo di Amaro dell’Alpino, un Freccia Verde di sessanta gradi, ottimo per sturare i lavandini e, (giuro che esiste) un Latte di Suocera. In compenso, quando chiediamo il conto, scopriremo che abbiamo risparmiato ben cinque euro a testa rispetto a un ristorante stellato.