In rivolta con Camus

/ 21.09.2020
di Paolo Di Stefano

Ovunque echeggi nell’aria il nome di Albert Camus, si avverte immediatamente un irresistibile profumo di intelligenza e di verità. E per fortuna è capitato spesso in quest’anno disgraziato. È capitato perché l’epidemia e la condizione che ne è derivata hanno suggerito a molti di leggere o rileggere quel capolavoro della narrazione morale che è La peste, non a caso comparso nelle classifiche di vendita: piacevole sorpresa accanto ai tanti altri titoli inguardabili (illeggibili) che vanno per la maggiore. Si è parlato di Camus anche perché il 4 gennaio sono caduti i sessant’anni dalla morte: avvenuta per un incidente stradale a Villeblevin, in Borgogna, mentre con l’editore Michel Gallimard e la sua famiglia lo scrittore tornava a Parigi dalla Provenza, dove aveva passato il Capodanno.

Morirono quasi sul colpo gli amici Albert e Michel, che guidava l’elegante Facel Vega FV3B impazzita, mentre rimasero pressoché illese la moglie e la figlia dell’editore. Questo sia detto per dovere di cronaca, con l’aggiunta che sull’incidente incombe l’ombra del delitto politico ordito dal KGB contro l’autorevole e severo oppositore dell’occupazione sovietica in Ungheria. Tre anni prima, a soli 44 anni, Camus aveva vinto il premio Nobel: ma a soli 44 anni aveva già scritto Lo straniero, La peste, La caduta, oltre ai saggi del Mito di Sisifo e de L’uomo in rivolta. Al quale ultimo va il massimo dei voti d’aria, come ai primi due romanzi.

In realtà, Camus non stava simpatico neppure agli Stati Uniti, anche se nella primavera del 1946 fu invitato dal Ministero degli esteri a tenere una serie di lezioni in Nord America. Il primo intervento pubblico, letto la sera del 28 marzo alla Columbia University, si intitolava «La crisi dell’uomo» e viene ripubblicato ora da Bompiani nel volume Conferenze e discorsi (1927-1958). Sono discorsi stupefacenti, perché parlano del dopoguerra ma potrebbero benissimo trattare dell’oggi, dando l’impressione che settant’anni e più, per tanti aspetti (umani e civili più che strettamente politici), siano trascorsi invano. Dunque, Camus sembra rivolgersi a noi quando, nella conferenza sulla «crisi dell’uomo», esordisce raccontando qualche episodio recente (il nazismo, contro cui aveva combattuto come partigiano, è caduto non da molto).

Episodio 1: nell’edificio della Gestapo di una città europea due torturati sanguinanti sono legati dopo una notte di interrogatori: la portinaia sta facendo le pulizie dopo aver fatto colazione e uno di loro trova la forza di rimproverarle l’assoluta indifferenza. Risposta: «Quel che fanno i miei inquilini non è affar mio».

Episodio 2: A Lione un compagno di Camus viene fatto uscire dalla cella per un nuovo interrogatorio: porta una benda intorno alla testa perché in un interrogatorio precedente gli hanno strappato le orecchie. Un ufficiale tedesco gli si avvicina: «Allora, come vanno queste orecchie?».

Episodio 3: In Grecia un ufficiale nazista ha ordinato di fucilare tre fratelli partigiani. La madre si getta ai suoi piedi: lui accetta di risparmiarne uno purché sia lei a sceglierlo. La madre non riesce a decidersi, ma quando il plotone spiana i fucili, lei indica il figlio maggiore, perché ha famiglia.

Senza voler semplificare troppo, si tratta di casi estremi che, secondo Camus, permettono di rispondere sì a una domanda chiave: «C’è una crisi dell’uomo?». Potremmo rispondere affermativamente anche noi, sostituendo i tre episodi narrati dallo scrittore francese con altrettanti casi attuali di indifferenza e cinismo.

Quanti di noi, pur avendo la tv accesa tutto il giorno, ignorano (come la portinaia di Camus) il destino brutale a cui sono ridotti milioni di profughi in fuga dalle guerre e dalla tortura? Viviamo un sacco di situazioni estreme senza minimamente sentirci coinvolti (e spesso neanche commossi): gli afroamericani uccisi dalla polizia, la ragazza eliminata dal fratello perché innamorata di un trans, il giovane massacrato per essere intervenuto a difesa dell’amico, le minorenni stuprate durante una festa, l’invasato diviso tra Allah e Satana che ammazza un amico, il prete dei poveri accoltellato per strada da un folle… Tutti casi di cronaca nerissima, diversi tra loro eppure simili nel chiamarci alla nostra partecipazione umana e alla nostra responsabilità.

Anche queste vittime, come quelle di Camus, erano persone «in rivolta», con valori negati (amicizia compresa) che non appartengono solo a loro ma sono un «bene comune» su cui bisognerebbe essere «spontaneamente solidali». Che fare? Abbandonare ogni pensiero fatalista, per esempio, metterci in rivolta anche noi. Cambiare prospettiva, mentalità, usare le parole giuste, esprimere la propria indignazione (se c’è). Camus ha risposte illuminate e illuminanti. La prima cosa da fare è: «Chiamare le cose con il loro nome e renderci conto che uccidiamo milioni di uomini ogni volta che accettiamo di pensare certi pensieri. Un uomo non pensa male perché è un assassino. È un assassino perché pensa male. Perciò si può essere assassini senza apparentemente avere mai ucciso. Ed è così che siamo più o meno tutti degli assassini».