Il mondo è al bivio tra recessione e depressione. La recessione è una fase pesante: scende il prodotto interno lordo, aumentano i debiti pubblici. La depressione è un disastro. I tempi della prima si misurano in mesi, forse anni; i tempi della seconda si misurano in decenni. Dalla Grande Depressione, innescata dal crollo delle Borse del 1929, l’America uscì solo con il riarmo della Seconda guerra mondiale e con il dividendo della vittoria. Stavolta cosa accadrà?
L’Europa rischia una catastrofe sociale, oltre che economica. E il Paese più debole, come d’abitudine, è l’Italia. Secondo le disposizioni del presidente del Consiglio, il prossimo 18 maggio riapriranno i negozi. Ma quanti non potranno riaprire? E quanti sono destinati a chiudere nei prossimi, difficili tempi, se non si fa qualcosa?Molte attività erano già in crisi prima della pandemia. Il «distanziamento sociale» non è cominciato con il Covid-19. La rete aveva già reso desuete o sporadiche cose che per le generazioni precedenti erano le più belle: andare al cinema e a teatro, scegliere un romanzo nella libreria vicino a casa, curiosare tra le novità di una bottega.
In questi tre mesi di chiusura, con la prospettiva di una riapertura cauta e spaventata, quasi tutti i commercianti hanno perso reddito e stock (quante merci deperibili o quanti vestiti resteranno invenduti?). E molti italiani, anche quelli più refrattari, si sono abituati a fare le loro spese on line.Senza demonizzare l’e-commerce, senza sospettare che buona parte degli introiti finiscano nei paradisi fiscali, è evidente che c’è una differenza tra cliccare in rete e spendere sotto casa soldi che in qualche modo resteranno nella comunità: sotto forma di tasse, di affitti, di stipendi. Dietro il piccolo commercio c’è un mondo, e ci sono famiglie: oltre al negoziante, c’è il grossista, il rappresentante, il camionista, il commesso. E il proprietario del locale, che non è un bieco rentier, ma quasi sempre un risparmiatore che ha investito nella speranza di garantirsi un piccolo reddito, anch’esso ora andato in fumo.
Lo stesso discorso vale per le librerie indipendenti, già in difficoltà di fronte alle catene, alla grande distribuzione, al commercio elettronico. Vale per gli edicolanti, che con i farmacisti e le cassiere dei supermarket hanno fatto sforzi straordinari in questi mesi drammatici. Per gli esercenti di cinema e teatri, e per tutti i lavoratori dell’industria dello spettacolo, che hanno di fronte un’estate terribile di inattività forzata.Parliamo ovviamente di categorie diverse. Ma hanno una cosa in comune: il loro lavoro ha molto a che fare con la vita di tutti. Con la cultura, con la socialità. I loro spazi sono luoghi di incontro. Scaldano le nostre anime. Vale per l’America, vale a maggior ragione per l’Europa, dove è una fortuna essere nati sia per la ricchezza culturale, sia per il calore dei rapporti interpersonali.Se si perdono questi lavori, questi luoghi, non si perde soltanto un’importante quota di prodotto interno lordo. Gli europei perdono una parte di se stessi. Per questo si deve fare tutto il possibile per salvarli.
Purtroppo la crisi innescata dalla pandemia sta smascherando i limiti delle classi dirigenti mondiali. Se tutti i Paesi si sono fatti trovare impreparati, con rarissime eccezioni, è anche perché la politica e il potere non riescono più a pensare, non si pretende alle generazioni future, ma neppure al domani. In questi anni ci siamo creati con le nostre mani una classe politica formata dalla rete e dai like. Gente che cambia idea a seconda dell’ultima cosa che ha letto su Facebook. E pretendiamo che si preparassero e ci preparassero a una pandemia?«Le Monde» ha pubblicato due pagine di intervista a Edgar Morin, 99 anni, sociologo e filosofo, presentato come «studioso interdisciplinare e indisciplinato». Dall’alto del suo sguardo che domina il secolo, Morin ha avuto buon gioco a dire che in realtà nessuno aveva previsto nulla. Certo, ci può essere la parola gettata lì dall’astrologo, o il romanziere dall’intuizione fortunata.
Ma tra i personaggi pubblici due soli avevano parlato di un’epidemia devastante che ci attendeva: Bill Gates, nel 2012, e Barack Obama, nel 2014. Entrambi erano rimasti suggestionati da Ebola perché entrambi attenti all’Africa, il primo perché lì lavora la sua Fondazione, il secondo perché da lì veniva suo padre. Ma l’uomo più ricco del mondo (nel frattempo superato da Jeff Bezos) e l’uomo all’epoca più potente del mondo non possono limitarsi alle parole; Bill Gates poteva e Obama doveva fare qualcosa in più, per essere conseguenti con le loro previsioni. La realtà è che il mondo si attendeva una crisi finanziaria, o climatica, o nucleare, o cybernetica; non si aspettava di essere messo in ginocchio da un virus. Se avessimo messo nella prevenzione della pandemia un decimo dell’energia e dei soldi serviti a fare l’i-Phone 11 o l’ultimo missile, non saremmo a questo punto.