In passerella: la fiera dell’importabile

/ 02.10.2017
di Luciana Caglio

La reazione è ormai scontata. Nei confronti delle sfilate che, a Milano, Parigi e New York, ospitano le creazioni dei più accreditati stilisti, cresce, nel pubblico, lo sconcerto, persino la sensazione di essere presi in giro. Un po’ come avviene al cospetto di certe installazioni nelle gallerie d’arte. Del resto, anche gli stilisti sono considerati artisti, ai quali va concessa la massima libertà, che non sempre è garanzia di successo. Qui sta il guaio, fonte di confusione. Infatti, gli abiti e gli accessori, presentati in questo rito, celebrato in pompa magna, sembrano destinati esclusivamente a una finzione scenica, per appagare le ambizioni dell’autore. Mentre, più prosaicamente, si tratta di oggetti, con funzioni precise: vestire, coprire, proteggere, far camminare. E via elencando le esigenze della quotidianità. Compresa quella di migliorare l’aspetto della persona, obiettivo tutt’altro che centrato. Lo confermano, una volta ancora, le immagini che, sui giornali e sugli schermi televisivi, hanno illustrato questi eventi: la moda in passerella fa notizia, merita spazio ed elogi, non da ultimo per i suoi risvolti economici e pubblicitari.

Al consenso dei media si contrappone, però, il rifiuto del pubblico. Il paradosso è evidente: un messaggio promozionale produce l’opposto. Ai destinatari, possibili consumatori, quelle proposte di vestiario appaiono proprio esempi da non imitare, che sconfessano le regole più elementari del buon gusto e della portabilità. In proposito, si sprecano le assurdità: a cominciare dagli accostamenti di tessuti, colori, stili, fra loro stridenti, per finire in tenute goffe e caotiche. Ecco, citando a caso, il calzino bianco da tennis, con risvolto colorato, abbinato alla scarpa da sera, tempestata di brillantini, lo stivaletto sportivo bordato con piume rosa confetto, i pantaloni quadrettati e la camicetta a fiori, stile paesano, o il pizzo di Sangallo con il parka: in gergo si chiama «abbigliamento puzzle», e dovrebbe «trasmettere gioia, far sorridere», come sostengono Dolce e Gabbana. In verità, queste tenute sono indossate da modelle pallide e imbronciate,che sembrano impegnate, quasi simbolicamente, a trasmettere un eterno malumore. 

Certo, stiamo parlando di un momento particolare del fenomeno moda, cioè di uno spettacolo a numero chiuso, riservato agli addetti ai lavori, frequentato dai personaggi da tappeto rosso, gli «happy few» che popolano questo genere di mondanità. Sin qui, niente di nuovo. Le sfilate hanno una lunga tradizione e diventarono, nella società dei consumi, un corollario sempre più determinante per le sorti delle collezioni, sia sul piano commerciale che su quello della popolarità. Punto di partenza, ormai storico, il «New Look», lanciato da Dior nel 1947, con grande clamore. Per la prima volta, la collezione di una «maison de couture» blasonata raggiungeva e conquistava il grande pubblico, svolgendo, così, il ruolo di punto di riferimento e d’imitazione. In un nuovo clima sociale, nasceva un rapporto diretto tra i grandi della moda, che stabilivano, di stagione in stagione, le regole del sistema vestiario, e il pubblico che vi si adeguava. E funzionò. Riuscì persino a superare il 68 che aveva predicato l’antimoda, creandone però una sua, all’insegna del folclore terzomondista e del ritorno alla natura. 

Successivamente, la società del tempo libero, del turismo, dello sport doveva, a sua volta, produrre uno stile vestimentario, ad hoc. 

Qui si apre un altro capitolo nella storia della moda che, in forme diverse, ci accompagna da decenni, all’insegna della libertà, della comodità e del giovanilismo. Ciò che non significa rinunciare al piacere di vestire, e bene. Anche in jeans, piumino e sneakers, magari firmati, si può essere eleganti. Ma il cambiamento, rispetto al passato, è sotto i nostri occhi: si è interrotto il legame di dipendenza dai dettami dei grandi sarti e stilisti, e si è allargata la nostra autonomia. Con gli inevitabili incidenti di percorso, provocati da una libertà fraintesa. Ed ecco gli uomini in canottiera e le ragazze in mutandine che popolano le nostre estati. Fenomeni ridicoli ed effimeri, non di oggi. Vale la pena di rileggere il piccolo saggio La moda (Mondadori), pubblicato da Georg Simmel nel 1917: «Fa parte dei motivi che oggi rendono così grande il potere della moda sulle coscienze, il progressivo indebolirsi delle convinzioni grandi, tenaci, incontestabili.» In parole povere, la moda come diversivo per non pensare ad altro.