In fuga dal ciclismo

/ 12.09.2022
di Giancarlo Dionisio

Far convivere sulle strade del Ticino camion, auto, biciclette, monopattini, pedoni e cani è un’impresa titanica. Per molti tratti le nostre strade sono un budello concepito decenni fa quando il traffico automobilistico era ridotto. Lo scorso 31 luglio nell’ambito della corsa ciclistica per professionisti «Lugano Summer Ride», gli organizzatori hanno voluto inserire anche 3 gare per le categorie giovanili. Solo una trentina di ragazzini ha risposto all’appello. Non perché qualcuno abbia voluto snobbare l’evento. Ma semplicemente perché in Ticino non ce ne sono di più. Sono convinto che questa crisi di vocazioni sia dovuta a due fattori principali. Il secondo per importanza è la mancanza di modelli di caratura mondiale. Non fraintendetemi, considero Hirschi, Küng, Mäder e Bissegger degli ottimi corridori, ma Fabian Cancellara aveva qualcosa in più. Spartacus, oltre che vincente, era un istrionico trascinatore. Non a caso Hirschi è nato e cresciuto a Ittigen, lo stesso villaggio in cui vive Cancellara.

A livello cantonale la situazione è ancora più asfittica. L’ultimo Ticinese ad aver vestito la maglia di una squadra World Tour (per intenderci, la Serie A del ciclismo) fu Rubens Bertogliati nel 2008. Ma la ragione principale della fuga dal ciclismo credo sia proprio la difficoltà di potersi allenare in situazioni protette. Non è un caso che ci sia un progressivo travaso dalla strada alla Mountain Bike. Non è un caso che il mondo del ciclismo invochi da tempo a gran voce la realizzazione di un velodromo. Pedalare sulle strade diventa di anno in anno più rischioso. Le piste ciclabili scarseggiano. Quelle più larghe vengono considerate ciclopedonali e scatenano altre tipologie di conflitto. A scanso di equivoci affermo che la rete ciclabile non ha e non deve avere l’obiettivo di formare i campioni di domani. Ma una rete protetta indurrebbe le famiglie a portare i loro ragazzini e ragazzine a cimentarsi serenamente su una bicicletta, lontano da auto, moto, rumori e gas di scarico. Se poi questi diventeranno dei professionisti, o addirittura dei campioni, ce li godremo. Basterebbe però che si limitassero ad assimilare e ad applicare da adulti il concetto di mobilità lenta.

Purtroppo, e non lo scrivo per giustificare la buona dose di immobilismo che ha caratterizzato negli ultimi decenni il mondo della politica cantonale in questo ambito, in Ticino abbiamo delle condizioni territoriali molto meno favorevoli rispetto ad altri cantoni. Siamo quindi costretti a una laboriosa convivenza. Una situazione che richiede maturità, pazienza, rispetto, non solo per evitare spiacevoli incidenti, ma anche per fare in modo che una piccola frizione non si trasformi in rissa. Leggevo tempo fa di un progetto neozelandese che punterebbe a spostare intere città costiere nell’entroterra, per ovviare alle possibili esondazioni dovute allo scioglimento dei ghiacci. Si tratterebbe di un’impresa al limite dell’utopia. Forse proprio nell’utopia potremmo cominciare a cercare le soluzioni alla nostra mobilità mista che ci sta stritolando i nervi. Ad esempio una rete stradale aggiuntiva sopraelevata per bici e monopattini. È chiedere troppo? Probabilmente sì. Ma le utopie si sono rivelate spesso il motore della storia. Forse fra 10 anni, quando il numero dei minuti trascorsi fermi in colonna supererà quello dei rari attimi in cui potremo circolare, un pensierino all’utopia ci sorgerà spontaneo.