Imparare a sostare nel tempo

/ 31.08.2020
di Lina Bertola

«In educazione bisogna saper perdere tempo». Nel giorno di riapertura delle scuole mi piace richiamare questo pensiero di Jean Jacques Rousseau che accompagna la sua relazione educativa con il giovane Emilio, lontano dalla frenesia del mondo e a contatto con i ritmi della natura.

Certo, il richiamo è rivolto al valore dell’educazione, a quel viaggio verso sé stessi, accompagnati da un Maestro, di cui la scuola rimane una straordinaria occasione. Di questo suo valore, dopo i tempi difficili appena trascorsi, siamo tutti, credo, un po’ più consapevoli. Per questo motivo l’inizio dell’anno scolastico, assieme al profumo di nuovo di quaderni gomme penne e colori, sembra offrirci oggi anche il profumo di una rinascita.

Il monito di Rousseau è un invito a riflettere sul valore dell’educazione quando sappia condurci per mano a sostare nelle durate di un cammino intimo e personale: nella lentezza del mio incontro con il mondo e con l’Altro; nella rapidità di un’improvvisa intuizione; nel tempo un po’ magico dell’incanto di una bellezza che colora di piacere l’esperienza della conoscenza; ma anche nel tempo creativo dell’ignoranza, nutrito dalla meraviglia e dal desiderio di capire.

Ma l’educazione, nella sua dimensione riflessiva già indicata da Platone, ovvero l’educarsi, è un’esperienza personale che non si conclude quando, presto o tardi, ci si accomiata dalle atmosfere della scuola. Al contrario, l’educarsi può accompagnarci per tutta la vita. 

Che cosa significano allora per noi, oggi, le parole di Rousseau? Che cosa può indicare quel «perdere tempo» che risuona come un invito offerto al nostro vivere? Quale tempo dovremmo imparare a perdere, e perché?

Sollecitata da questi interrogativi, mi vien da rivolgere lo sguardo al nostro attuale vissuto del tempo. In ogni epoca il senso dell’esistenza si è intrecciato con una particolare percezione del tempo. Dal tempo ciclico degli antichi, al tempo dell’attesa del Cristianesimo, a quello del progresso della modernità, il nostro abitare dentro una sua rappresentazione simbolica condivisa ha sempre orientato il significato della vita.

Oggi il nostro vivere nel cosiddetto tempo reale, tutto esibito sulla scena del mondo, simultaneo e frammentario, rischia di privarci di questa esperienza di senso, o perlomeno rischia di renderla sempre più difficile.

Non si tratta però di demonizzare la velocità di continue accelerazioni che ci imprigionano nella morsa della fretta e nell’ansia di rispondere alle loro richieste. Ma nemmeno si tratta di incoraggiare o esaltare una lentezza che si propone sul mercato della vita come efficace antidoto, a cominciare dal mantra dello slow food. Questo perché, sulla superficie del tempo reale, lentezza e velocità sono temporalità private della loro essenza, senza contatto con il dipanarsi, sempre singolare, della vita di ognuno.

L’invito a perdere tempo potrebbe allora suggerirci di lasciar andare, per quanto possibile, ritmi e urgenze, ma anche lentezze, proposte e imposte dall’esterno, per ritrovarle in noi, nel ritmo del nostro vissuto. Lasciare andare, come un vuoto a perdere, il tempo che abbiamo, ma più spesso non abbiamo, per ricongiungerci con il tempo del nostro esserci e per ritrovare in noi la sua essenza.

La sfida dell’educarsi che ci accompagna per tutta la vita potrebbe essere quella di riappropriarci di un tempo personale che riesca davvero ad esprimere la singolarità della nostra esperienza. Imparare a sostare nel tempo perché, come scrive il filosofo Eraclito in un suo bellissimo frammento giunto fino a noi, per quanto camminiamo nella vita, mai raggiungeremo i confini dell’anima. Vivere è stare, sostare nel tempo. Oggi sappiamo che il tempo appartiene al nostro cervello e sappiamo che cervello, coscienza e tempo sono inseparabili. Abbiamo coscienza della realtà nel tempo, come già aveva indicato, secoli prima delle attuali risposte scientifiche, la felice intuizione kantiana.

Le parole di Rousseau risuonano dunque come un invito a lasciar andare un tempo che non tocca l’anima per ascoltare meglio la voce della sua presenza in noi, dove rapidità e lentezza si intrecciano e diventano valori autentici. La lentezza come tempo della riflessione, della solitudine che predispone all’incontro con l’altro, del silenzio che precede la parola, e del sacro, ovvero quel senso indifferenziato delle cose, che anticipa nella calma ogni nostra apertura possibile.

La rapidità, invece, come tempo dell’intensità, nel gesto creativo, in quello della cura, e in ogni altro gesto che ci permetta di sentirci in movimento nella vita, cavalcando le sue piccole e grandi trascendenze.