Macché civiltà delle immagini. Sono così tante quelle che ci circondano, quelle che si impongono, che ci rincorrono, così tante che non significano più nulla. Si dice, molto correttamente, che mille anni fa un uomo potesse vedere nel corso della sua vita non più di dieci, forse quindici immagini dipinte: qualcuna nella chiesa del paese, qualcuna – all’epoca dei comuni – sui muri del broletto, il palazzo comunale; infine, se si era fortunati, magari un’occhiata nel castello, mentre si pagavano le imposte o si portavano in omaggio ai signori i prodotti della terra e degli animali. Non tutti, anzi molto pochi, potevano avere in casa un quadretto devozionale. Fino alla diffusione, non solo all’invenzione, della fotografia le cose non sono cambiate, non credo che nella Parigi del Settecento, pur illuminista, il cittadino avesse altre immagini disponibili oltre a quelle in chiesa e nei palazzi. Che peraltro la Rivoluzione del 1789 distrusse senza porsi il problema dell’arte, del bello, della storia. Lo stesso si può dire di gran parte dell’Europa, dove la Riforma dal Cinquecento rifiutava le immagini sacre, o le eliminava direttamente col fuoco, come fece Calvino a Ginevra.
Oggi invece noi vediamo ogni giorno decine di migliaia di immagini, e non, o non solo, per scelta personale. Da un lato fotografiamo e filmiamo di tutto, subiamo le centinaia di finestre di pubblicità non richiesta mentre cerchiamo notizie, programmi televisivi, il meteo, insomma un salto nel web e finiamo presi a pugni da immagini e video non richiesti. Dall’altro lato, veniamo filmati e fotografati che lo vogliamo o no. Basta metter piede dietro a una cattedra o su un palcoscenico, per parlare anche di cose serissime, e scattano i cellulari che fotografano o riprendono in video. È decisamente imbarazzante, fino a pochi anni fa vi ricordate quanta cura mettevamo per un ritratto fotografico? Mi ricordo l’anno della maturità: allora bisognava allegare una fototessera alla domanda per sostenere l’esame. Tutta la mia classe si recò da un fotografo che truccava le foto! Niente a che vedere con il ritocchino praticato oggi, aggiungeva colore alle guance, rossore alle labbra. In sostanza, una ventina di studenti ebbero la loro foto degna delle ceramiche cimiteriali, che solo a pensarci mi vergogno.
Ma oggi è diverso, oggi sei nel telefono di un personaggio sconosciuto anche se hai lo sguardo spento, se ti stai sistemando i capelli, se – orrore – ti stai distrattamente mettendo le dita nel naso. E mentre per trasmettere una tua immagine in televisione ti fanno firmare mille liberatorie piene di commi e cavilli, chiunque si porta a casa quello che ha ripreso senza chiedere permesso o perché. Così, anche voi diverrete insignificanti: tante immagini, è come nessuna immagine. Vi state laureando, è pronta la corona di alloro, pronti i fiori rossi, forse anche le bomboniere con i confetti rossi. Si potrebbe riflettere su come gli apparati del festeggiamento crescano in maniera inversamente proporzionale alla durata e alla difficoltà dei corsi di studio, ma non è questo l’argomento di oggi. Infatti quel che ci preoccupa non sono i canti goliardici (raffinatissimi) e nemmeno le bottiglie di Prosecco abbandonate nel campus dell’università. Stiamo parlando della quantità di foto che verranno fatte all’eroe del giorno, il neo-laureato. Ogni parente, ogni fidanzata scatterà le sue. E poi, il nulla. Nessuno confronterà le foto, sceglierà le migliori, le farà stampare o – Dio non voglia – le incornicerà. Rimarranno lì, sepolte nei cellulari o tumulate in una chiavetta.
Le conseguenze dell’incongruo scattare sono evidenti, per esempio la distrazione e la non attivazione della memoria, se fotografo non occorre applicarmi a ciò che sto guardando. Tanto è tutto fotografato. Inoltre posso disattivare anche l’empatia, devo scattare, non ho tempo per capire come si senta l’oggetto della mia attenzione. Non riesco nemmeno ad ascoltarlo, se per caso parla, sono troppo occupato, via facciamogli anche un video. Neanche per sogno, quelle immagini non solo si cannibalizzano tra loro, ma perdono senso una per una. Sono tante, sono troppe. Non riescono a immortalare, quindi a rendere in un certo senso immortale, nessuno. Scorrono e non rimangono, come l’acqua di Eraclito, che non è mai la stessa: non ci si bagna mai nello stesso fiume, che è vero, ma è anche metafora del correre di tutte le cose, che mutano di continuo senza lasciare tracce. Il fuoco, per Eraclito, è l’elemento che dà vita al mondo. Ma anche il fuoco è metafora di un continuo cambiamento, un mutamento che non ha sosta. Così sono le immagini che ci vengono incontro a migliaia, è difficile che una si fermi, che una ci impressioni davvero. E anche quando accade, per la forza e la bellezza e forse l’orrore che richiama, dura poco, un’altra immagine prenderà presto il suo posto, lasciando vuota la mente e la fantasia.